Recensioni articoli alimentazione, allattamento, educazione

EFFETTO PROTETTIVO DELL'ALLATTAMENTO AL SENO SULLE MALATTIE CRONICHE NON TRASMISSIBILI DELL'ADULTO

Kelishadi R, Farajian S. The protective effects of breastfeeding on chronic non-communicable diseases in adulthood: A review of evidence. Adv Biomed Res 2014;3:3 doi: 10.4103/2277-9175.124629

La maggiore spesa sanitaria a livello mondiale è impiegata nella cura delle malattie croniche non trasmissibili (NCCD) cioè problemi cardiovascolari, cancro, malattie respiratorie croniche e diabete. Secondo il report 2008 della WHO sono responsabili del 63% dei decessi e si avviano, per il 2020, a raggiungere il 69%. Fumo di sigaretta, iperlipidemia, ipertensione, iperglicemia, obesità e stili di vita sedentari sono chiamati in causa come moventi primari. Gli autori hanno condotto uno studio di revisione della letteratura per valutare il ruolo del fattore nutrizionale principale e primevo, l’allattamento al seno, come predisponente a modificazioni epigenetiche positive. In merito a differenti eventi patologici (ipertensione, obesità, diabete, ipercolesterolemia e patologie cardiovascolari) non è stato possibile rilevare un ruolo chiave assoluto dell’allattamento al seno come elemento preventivo ma, nondimeno, ne è stata osservata l’azione positiva mediata da: 1) ridotti introiti di sodio, 2) alto contenuto in acidi grassi polinsaturi (beneficio sugli endoteli arteriosi), 3) contenimento dell’iperinsulinemia, 4) azione della leptina come preventivo nella formazione degli adipociti, 5) possibile ruolo ipocolesterolemizzante a lungo termine mediante una under-regulation dell’idrossimetil-glutaril coenzima A epatico. Per quanto gli autori siano obiettivi nella valutazione di quanto raccolto in letteratura (i numerosi studi presi in esame infatti sono spesso contradditori e non conclusivi) le somme a cui pervengono sono nettamente sbilanciate a favore dell’allattamento al seno come co-elemento nella prevenzione delle NCCD, insieme al contenimento del BMI della gravida e a fattori ambientali agenti durante la crescita nelle primissime fasi della vita (divezzo e successive abitudini alimentari/life-style).

Commento
Certamente è necessario includere l’allattamento al seno tra i fattori di prevenzione delle NCCD ma è innegabile che le ripercussioni positive possono essere vanificate da elementi agenti in successive fasi della vita a cui noi pediatri dobbiamo sempre più porre attenzione (junk food, sbilanci nutrizionali, eccessi/difetti non abbastanza valorizzati di nutrienti soprattutto per ciò che attiene alle proteine e ai glucidi, sedentarietà, scarsa conoscenza dei genitori sugli elementi di tipo affettivo che sono legati all’alimentazione). Il seno è UNelemento (fondamentale) ma non L’elemento risolutivo.

Stefano Tasca
Neonatologia Aurelia Hospital, Roma

 

ALLATTAMENTO AL SENO, CIBI SOLIDI COMPLEMENTARI E RISCHIO DI OBESITA' A LUNGO TERMINE

Kramer MS. Breastfeeding, complementary (solid) foods, and long-term risk of obesity. Am J Clin Nutr 2010;91(3):500-1 DOI: 10.3945/ajcn.2010.29199

Da più parti s’invoca la precoce introduzione di cibi solidi nella dieta dei bambini ed una breve durata dell’allattamento materno come fattori primari di rischio per l’obesità in età adulta. Controversie sono presenti anche su questo tema poiché gli studi, per quanto accurati, sono resi parzialmente vani da una grande varietà di elementi di confusione dati da genetica, abitudini alimentari delle varie popolazioni, stili di vita più o meno attivi e quant’altro. In questo editoriale l’autore, prendendo le mosse da uno studio a lungo termine (42 anni a partire dagli anni 1959-61) di Schack-Nielsen (Late introduction of complementary feeding, rather than duration of breastfeeding, may protect against adult overweight. Am J Clin Nutr 2010;91:619-27http://ajcn.nutrition.org/content/91/3/619.long) ed operando a sua volta una analisi sui dati riportati nel lavoro in questione, rileva alcuni gap di non secondaria importanza quali le condizioni socioeconomiche di quella particolare popolazione negli anni ’60 (certamente differenti dai giorni nostri), l’abitudine a sospendere l’allattamento al seno quando iniziava l’alimentazione solida (cosa che oggi non avviene più), il fatto che l’obesità patologica negli anni ’60 era certamente meno diffusa e comunque non rappresentava un allarme.

In definitiva in quello studio (dove peraltro si rileva un’azione non significativa della precoce introduzione di solidi fino a tutta l’adolescenza) si sottolinea il fatto che il timing di svezzamento divenga statisticamente concreto solo all’età di 42 anni e che il prolungamento dell’allattamento al seno non sia influente sull’insorgenza di obesità nell’adulto. Kramer dunque si sofferma, critico, su questi dati sottolineando, a mio giudizio con grande acume seppure con garbo, che più probabilmente sono altri i fattori in gioco (sedentarietà e diete errate) nella genesi del sovrappeso, visto che a parità di condizioni l’età infantile ed adolescenziale ne sono pressoché libere. La conclusione, piuttosto pessimistica, di Kramer è che non si risolve nulla spostando in avanti l’età d’introduzione dei solidi nella dieta o prolungando l’allattamento al seno: per ottenere risultati validi occorrerebbe, a suo giudizio, agire sullo stile di vita e sulla dieta complessiva (quindi non sui tempi ma sulla qualità) a partire dalla prima infanzia, ed usa queste testuali parole: “Starting infants and children on the road towards a healthy body weight is a very important public health goal but will require difficult lifestyle choises by individuals, families and communities“. Mi trovo assolutamente in accordo.

Stefano Tasca
Neonatologia Aurelia Hospital, Roma

L'EPIGENETICA: UN NUOVO PONTE FRA NUTRIZIONE E SALUTE

Choi SW, Friso S. Epigenetics: A New Bridge between Nutrition and Health. Adv Nutr 2010;1:8-16 doi: 10.3945/​an.110.1004

Un nuovo e ancora relativamente vergine campo di esplorazione sperimentale in materia di prevenzione delle patologie più invalidanti (obesità, diabete, affezioni cardiovascolari, iperlipidemie) è lo studio dell’epigenetica che consiste nella modificazione della traduzione del genoma, attuata, oltre che da fattori ambientali i più svariati, anche dai nutrienti. L’azione si esercita attraverso la metilazione del DNA, la modificazione degli istoni e il rimodellamento della cromatina. La nutrigenomica, che studia questi fenomeni dal punto di vista strettamente alimentare, sarà il campo futuro di studio per l’adeguamento della dieta in base alle caratteristiche genetiche del singolo individuo e, cosa ancor più suggestiva, per “pilotare” in senso preventivo l’espressione fenotipica dei singoli sin dalla più tenera età. Chol e Friso, in questo approfondito articolo, analizzano le basi chimiche dell’epigenetica rivelando i meccanismi coi quali specifici nutrienti riescono a modificare l’espressione fenotipica del DNA  generando maggiore o minore predisposizione a patologie dell’adulto. Difficilmente si può ignorare quanta importanza rivestano in questa azione sostanze quali la vitamina B12, la Biotina, il Resveratrolo, l’Alcool (già in gravidanza), l’Acido Folico, l’apporto proteico in gravidanza e la qualità delle proteine ingerite (in quanto a contenuto in specifici aminoacidi). Un esempio per tutti, tratto da esperimenti su topi e riportato dagli autori, riguarda la metilazione del DNA (modificazione della Citosina mediante aggregazione di un gruppo metilico): l’impoverimento in proteine della dieta nella gravida (diminuzione dell’apporto in Metionina, Colina e Betaina) predispone la prole ad ipertensione, dislipidemia ed alterazione nel metabolismo del glucosio in età adulta.

Per quanto il campo sia ancora inesplorato ed alcuni meccanismi non ancora completamente chiariti, le evidenze sperimentali rendono ragione della grande importanza che questi fenomeni rivestono incidendo in modo certo non indifferente sugli indici di rischio per malattie sociali ed estremamente invalidanti. Quello che è da sottolineare, in questa materia, è la sua  rilevanza a livello fetale/neonatale: l’attenzione alla composizione della dieta non è secondaria ma centrale, come elemento di prevenzione e di salute pubblica, sin dal concepimento. Questa materia rimette in discussione molte teorie sull’alimentazione infantile (età di inizio del divezzo, prolungamento maggiore o minore dell’allattamento al seno, uso di prodotti freschi versus prodotti industrialmente elaborati, ecc.) restituendo importanza alla qualità: la lettura di questo lavoro aiuta a prendere confidenza con le principali caratteristiche del campo.

Stefano Tasca
Neonatologia Aurelia Hospital, Roma

SVEZZAMENTO PRECOCE E OBESITA' INFANTILE: LA RELAZIONE FRA ALLATTAMENTO AL SENO E TEMPISTICA DI INTRODUZIONE DEI SOLIDI CON L'OBESITA' NEL PERIODO DELL'INFANZIA

Vehapoglu A, Yazıcı M, Demir AD, Turkmen S, Nursoy M, Ozkaya E. Early infant feeding practice and childhood obesity: the relation of breast-feeding and timing of solid food introduction with childhood obesity. J Pediatr Endocrinol Metab 2014;27(11-12):1181-7 doi: 10.1515/jpem-2014-0138.

ABSTRACT
La domanda da cui parte questo studio, effettuato su 4990 bambini di età compresa fra 2 e 14 anni, è quella usuale: il prolungamento dell’allattamento al seno ed il ritardo di introduzione dei solidi nella dieta sono fattori protettivi per l’insorgenza di obesità infantile? La risposta, a giudicare da molta letteratura e dall’opinione comune, sembrerebbe uno scontato “sì”. Nei fatti questo lavoro (che ha diviso i soggetti per gruppi di durata dell’allattamento (0-1, 2-6, 7-12, 13-18 e 19-24 mesi) e per età di inizio dei solidi (<4m, 4-5m e >6m)), rilevando una durata dell’allattamento esclusivo a 6 mesi di quasi il 50% ed eliminando tutti i fattori di confusione, non è riuscito a mettere in luce alcuna differenza significativa tra i gruppi. Riporto integralmente la conclusione dello studio: “Although breastfeeding has been previously reported to protect against childhood obesity, we were unable to find a significant association between obesity and either longer duration of breastfeeding or later introduction to solid foods in our sample”.

COMMENTO
L’allattamento al seno va promosso con forza (specie specifico, benefico, protettivo, ecc.) ma nella qualità della nostra comunicazione [che si avvera quando, con grande entusiasmo, decantiamo la sua unicità rispetto a futuri problemi (e questo vale, di conseguenza, per ciò che attiene al ritardo di introduzione dei solidi)] dovremmo tenere in considerazione anche questi dati. Le scelte nutrizionali non sono integralistiche – e questo credo/spero sia nell’esperienza di ciascuno – ma si stemperano nel buonsenso: è indiscutibile che allattare è importante per madre e figlio ma è certamente palese che non costituisce l’unico elemento fondante della futura salute. Questo credo valga anche per i ritardi di divezzo che da più parti sono invocati come causa principale di possibile insorgenza di allergie e di mancato sviluppo delle tolleranze alimentari oltre che di una possibile alterazione nel rapporto futuro col cibo (quantità/qualità).

Stefano Tasca
Neonatologia Aurelia Hospital, Roma

RUOLO DELL'INDICE DI MASSA CORPOREA E DELL'ACQUISIZIONE DI PESO IN GRAVIDANZA SUI RISULTATI DELL'ALLATTAMENTO AL SENO

Bartok CJ, Schaefer EW, Beiler JS, Paul IM. Role of body mass index and gestational weight gain in breastfeeding outcomes. Breastfeed 2012;7(6):448-56 doi: 10.1089/bfm.2011.0127

ABSTRACT
L’osservazione di partenza è che il tasso di successo degli allattamenti al seno in termini di inizio/durata sia statisticamente basso in quelle sottopopolazioni di donne con maggiore incidenza di obesità  in fase sia pregravidica che gravidica. Già nel 2004 Rasmussen KM pubblicò su “Pediatrics” uno studio che vedeva alla base di questo problema una diminuzione della secrezione di prolattina in donne sovrappeso o obese con una conseguente maggiore difficoltà sia ad ottenere la montata, sia a mantenerla per un tempo prolungato. Al ruolo dell’ipoincrezione ormonale è stata aggiunta una congerie di altre possibili cause (psicologiche, comportamentali, culturali) in studi successivi (Amir LH su “BMC Pregnancy Childbirth” nel 2007, Wojcicki JM sul “Journal of Womens Health” nel 2011) ma si è sempre dato per scontato il rilievo: a donna obesa difficilmente corrisponde donna nutrice. Questo studio prospettico/longitudinale di Bartok, effettuato su 718 donne, contraddice in modo piuttosto chiaro quanto constatato negli studi precedenti. Mediante eliminazione dei fattori di confusione, analisi multivariata e uso di curve di Kaplan-Meier, è stato rilevato dagli autori che il BMI materno e l’acquisizione di peso in gravidanza non sono alla base degli insuccessi di allattamento, sia come singoli fattori, sia in associazione. Riporto la conclusione: “Maternal BMI and GWG were not significantly associated with breastfeeding outcomes after adjusting for confounding variables. Mothers’ plans for breastfeeding duration and the importance mother assign to breastfeeding remain the optimal intervention points for lengthening breastfeeding duration and reducing formula supplementation”.

COMMENTO
Difficile non essere in accordo con queste conclusioni seppure, a mio giudizio, dovrebbero essere tenute in considerazione, nella promozione/motivazione dell’allattamento al seno, alcuni fattori di non secondaria importanza: dimensioni del seno, possibile difficoltà a muoversi agevolmente, presenza di anomalie del capezzolo (nelle obese spesso è piatto o rientrato), problemi di autostima, struttura psicologica di base (è meglio ricordare che l’obesità ha spessissimo radici comportamentali), possibile presenza di patologie concomitanti (ipertensione, diabete) e quant’altro. In definitiva le madri obese o sovrappeso sono una categoria comunque “a rischio” di allattamenti imperfetti o poco gratificanti e quindi dovrebbero essere seguite più da vicino ed assiduamente.

Stefano Tasca
Neonatologia Aurelia Hospital, Roma

"PENSAVO CHE LI AVREBBE AZZITTITI". L'ESPERIENZA DI ALLATTAMENTO DELLE DONNE COME ILLUSIONE DI ADERENZA ALLE ASPETTATIVE: UNO STUDIO FENOMENOLOGICO INTERPRETATIVO

Spencer LS, Greatrex-White S, Fraser D. “I thought it would keep them all quiet”. Women’s experience of breastfeeding as illusion of compliance: an interpretive phenomenological study. J Adv Nurs 2015; 71(5):1076-1086. 

In questo articolo si parla di un argomento a me molto caro: il modo di fare promozione incide sul successo dell’allattamento al seno non tanto in termini di inizio quanto di durata nel tempo e tende a creare disagi psicologici se condotto in modo sbagliato (pressante o colpevolizzante). Ne ho accennato in numerose occasioni già da tempo ma questo articolo, estremamente interessante, certamente più di quanto io possa mai riferire della mia personale esperienza, traccia punti chiave sui quali credo sia opportuno riflettere. Rachael Spencer, professore associato in Midwifery a Nottingham (UK), ha condotto uno studio riguardante le esperienze di allattamento in una chiave inusuale: le minuziose e numerose interviste, condotte in un arco di tempo tra il Luglio 2009 e il Gennaio 2010, hanno riguardato gli aspetti emotivi e di “feeling” più di quelli di “successo” del breastfeeding. Le donne, sia primi- che pluri-gravide, sono state seguite per tutto l’arco temporale citato. Lo scopo dello studio è stato quello di valutare l’impatto di un forte battage promozionale sui risultati dell’allattamento stesso ma soprattutto sui sentimenti delle nutrici sottoposte a questo battage. I risultati? Le donne hanno descritto come si fossero sentite forzate a iniziare l’allattamento per aderire alle aspettative sociali e dei sanitari. Inoltre hanno riferito di sentire che sarebbe stato più importante non mettere al centro il bambino ma i loro propri bisogni in relazione all’unità familiare. Gli autori concludono che questi risultati debbano far modificare l’approccio alla donna che ha partorito tenendo conto di alcuni fattori che riporto integralmente di seguito: 1) occorre un empowerment della donna libera di scegliere, dopo informativa, sul tipo di alimentazione del neonato; un empowerment che parta dalla nascita e la segua lungo tutto il suo percorso di allattamento; 2) I sanitari dovrebbero lavorare in sincrono con la donna e la sua famiglia per facilitare i processi di scelta qualunque essa sia; 3) I sanitari dovrebbero capire che alcune donne tendono a nascondere le loro difficoltà e i loro disagi piuttosto che confessare la loro vulnerabilità; 4) Le midwives ed i sanitari che fanno visite alla donna che allatta debbono occuparsi del benessere della madre almeno quanto quello del bambino. Interessante, no?

Stefano Tasca
Neonatologia Aurelia Hospital, Roma

ASSOCIAZIONE TRA ALLATTAMENTO PROLUNGATO E DENSITA' MINERALE OSSEA/OSTEOPOROSI IN DONNE NEL PERIODO POSTMENOPAUSALE: KNHANES 2010-2011

Hwang IR, Choi YK, Lee WK, Kim JG, Lee IK, Kim SW, Park KG. Association between prolonged breastfeeding and bone mineral density and osteoporosis in postmenopausal women: KNHANES 2010-2011. Osteoporos Int 2015. 

L’allattamento prolungato al seno viene propugnato con calore decantandone le qualità salutari indubbie sia per il bambino che per la donna (prevenzione del tumore mammario, vantaggi sul piano della ripresa del peso pregravidico, ecc.). L’osteoporosi nell’immediata post lattazione è evento ben noto e descritto in letteratura tanto da essere considerato comune e scevro da conseguenze (il reintegro, in condizioni di alimentazione adeguate è abbastanza rapido). Già da molti anni, però, ci si è posti il dubbio che un allattamento prolungato possa essere dannoso non a breve termine bensì in epoca post menopausale. I primi studi risalgono al 2010 (Shnatz e coll. su Menopause, 2010) e la valutazione delle conseguenze sembrava apparire favorevole. Addirittura si osservava un effetto positivo di un lungo allattamento sulla consistenza dell’osso. Questo studio è stato corroborato da un’altra indagine condotta in Turchia da Yazici l’anno seguente (Arch Med Sci. 2011;7(3):486-92. ). Nel 2013 iniziano i dubbi seri. Un lavoro di Okyay (Maturitas. 2013;74(3):270-5.) rileva come un allattamento prolungato oltre l’anno sia un fattore di rischio indipendente per lo sviluppo di osteoporosi postmenopausale seppure una multiparità sembrasse avere un effetto protettivo (un invito ad avere molti figli e a non allattarli troppo?). La svolta avviene nel 2014 con uno studio italiano a firma di Bolzetta (Bone 2014;68:41-5.) in cui si parla chiaramente di allattamento prolungato come di un fattore di rischio fattivo per riduzione di densità della massa ossea, mentre il numero di parti e l’età del primo parto non sembrano avere alcun ruolo in questa patologia. Si arriva dunque a questo studio, recentissimo, effettuato nell’ambito del Korea National Health and Nutrition Examination Survey (KNHANES). 1222 donne in post-menopausa sono state studiate al proposito. Durata dell’allattamento e Bone Mass Density (BMD) sono risultate in rapporto inverso anche dopo correzione dei fattori di confusione. Età al parto e numero di gravidanze, viceversa, non sembrano inficiare la BMD. A corredo viene riportato e sottolineato come il prolungamento dell’allattamento al seno sia correlato con l’osteoporosi e con un incremento lineare dell’incidenza di fratture vertebrali (OR = 3.292; 95 % CI 1.485-7.299).

Commento: l’allattamento prolungato può essere attuato, certamente, con grande beneficio per madre e figlio. Stabilire dei tempi, però, forse diviene importante per la prevenzione di alcuni problemi. Sembra quasi che la natura stessa suggerisca di non esagerare. Per coloro che vogliono, con soddisfazione, continuare ad offrire il seno ai loro bambini oltre i 18-24 mesi sarebbe opportuno un accurato monitoraggio della vitamina D e dell’apporto di calcio.

Stefano Tasca
Neonatologia Aurelia Hospital, Roma

MOTIVAZIONE AD ALLATTARE E TEORIA DELL'AUTODETERMINAZIONE

Kestler-Peleg M, Shamir-Dardikman M, Hermoni D, Ginzburg K. Breastfeeding motivation and Self-Determination Theory. Soc Sci Med 2015;144:19-27.

Un interessante articolo nel quale, a fronte dei buoni risultati sul piano dell’ottenimento di una scelta pro-allattamento materno, si è voluta valutare la motivazione individuale delle donne coinvolte e la qualità di vita delle stesse in base al tipo di motivazione. Lo studio, che si è avvalso di parametri contenuti nella Teoria dell’Autodeterminazione (SDT: Self-Determination Theory; Deci E.L.-Ryan R.M. 1985) si è svolto in due fasi: nella prima (anno 2007, 130 madri di almeno un figlio di età inferiore agli 8 anni) si è stilata una “breastfeeding motivation scale”  che seguisse i canoni della teoria dell’autodeterminazione; nella seconda (anni 2008-2010, 236 donne seguite in tre diversi momenti della loro avventura riproduttiva e cioè nel terzo trimestre di gravidanza, a 8 settimane dopo la nascita e a 5 mesi di vita del piccolo) si è effettuata la validazione della scala e si sono tratte conclusioni alla luce della SDT. I risultati sono piuttosto significativi. In primo luogo si è constatata l’applicabilità della SDT all’allattamento al seno; in secondo luogo, e questo è il clou dello studio, si è visto come le motivazioni autonome siano caratterizzate da una sensazione di benessere e di buona autovalutazione mentre le motivazioni controllate (pressioni sociali, voglia di non essere malviste, paura del giudizio, ecc.) siano associate in modo direttamente proporzionale al distress e alla stanchezza ed inversamente proporzionale alla sensazione di efficienza. Nella nostra azione di promotori dell’allattamento al seno forse dovremmo tenere conto di questi fattori. Mi ha colpito trovare questo articolo poiché ricalca in modo abbastanza preciso quello che empiricamente avevo constatato personalmente nella mia esperienza di anni. Sarebbe utile un confronto sul tema.

Stefano Tasca
Neonatologia – Aurelia Hospital, Roma

APPORTI DI FERRO IN LATTANTI E BAMBINI AUSTRALIANI: RILIEVI DAL PROGRAMMA InFANT

Atkins LA1, McNaughton SA1, Campbell KJ1, Szymlek-Gay EA1.Iron intakes of Australian infants and toddlers: findings from theMelbourneInfant Feeding, Activity and Nutrition Trial (InFANT) Program.Br J Nutr. 2016 Jan;115(2):285-93.

Gli autori di questo studio, volto alla valutazione dello stato del ferro in lattanti e bambini Australiani in relazione alle abitudini alimentari, hanno compiuto un’analisi a partire dal  Melbourne Infant Feeding, Activity and Nutrition Program da cui hanno estrapolato dati antropometrici, stato socioeconomico e dati nutrizionali di 485 lattanti (età media 9,1 mesi) e 423 bambini (età media 19,6 mesi). La composizione della dieta, sia in relazione alla qualità sia alle quantità, è stata il cardine su cui hanno imperniato la ricerca (raccolta dati di 24 ore in 3 giorni non consecutivi). Mediante regressione lineare è stata saggiata l’incidenza di apporti inadeguati di ferro in relazione a tutti i principali fattori anche non direttamente nutrizionali (sesso, allattamento al seno, età di introduzione dei solidi, età materna, educazione materna, stato professionale/lavorativo della madre e Paese di origine della madre).  I risultati sono stati i seguenti: il 32,6% dei lattanti (introito medio di ferro pari a 9,1 mg/die) e il 18,6% dei bambini (introito medio di ferro pari a 6,6 mg/die) ha mostrato inadeguate introduzioni di ferro alimentare. Le principali fonti di ferro, in questi gruppi, sono state formule fortificate per i lattanti e cereali fortificati per i bambini. Una nota a parte va riservata ad un ulteriore rilievo: il sesso femminile ed un allattamento al seno esclusivo e prolungato sono stati negativamente associati con gli introiti di ferro (lattanti); nei bambini l’associazione negativa è stata invece con l’introduzione di solidi nella dieta a sei mesi ed oltre. Gli autori auspicano che questi loro rilievi possano portare un contributo per stilare interventi basati sulla dieta allo scopo di migliorare gli apporti di ferro.

Commento: nulla toglie questo studio all’importanza dell’allattamento al seno nel suo complesso. E’ intuibile infatti che come fonte di ferro il latte materno, dopo il quarto mese, non sia l’optimum: nei primi quattro mesi a supplire ad eventuali carenze sono infatti le scorte di questo elemento che il piccolo ha dalla nascita ma che esaurisce col raddoppio del peso. Quello che mi ha colpito di questo studio sono alcune cose che mi permetto di evidenziare:

A) Le formule fortificate ed i cereali fortificati non rappresentano certamente una soluzione al problema degli introiti di ferro: i dati dello studio sono piuttosto chiari in merito

B) L’introduzione di solidi al sesto mese ed oltre è di per se causa di carenza di apporti di ferro e crea il rischio di deplezioni costringendo a reintegri farmacologici.

Personalmente ritengo che il mantenimento dell’allattamento al seno ad libitum sia da sostenere senz’altro alla condizione che l’introduzione di solidi avvenga in tempi corretti, cioè al quarto mese, consentendo di integrare quanto richiesto dal bambino in crescita ma non incrementabile nel latte materno.

Dr. Stefano Tasca - Neonatologia Aurelia Hospital

 

IL PROLUNGAMENTO DELL'ALLATTAMENTO AL SENO NON INFLUISCE SUL PROFILO LIPIDICO IN ETA' ADULTA

Hayosh O1, Mandel D, Mimouni FB, Lahat S, Marom R, Lubetzky R.Prolonged duration of breastfeeding does not affect lipid profile in adulthood.Breastfeed Med. 2015 May;10(4):218-21.

Una buona notizia per quanti, avendo letto l’Hertfordshire Study, hanno pensato che una alterazione dei profili lipidici in età adulta (in particolare un notevole aumento delle LDL) fosse dovuto ad un prolungamento dell’allattamento al seno oltre l’anno di età. Gli autori hanno studiato un gruppo corposo di adulti in forma (escludendo quindi dislipidemici noti, persone con parenti di I grado dislipidemici, obesi, gravide, donne entro il 3° mese postpartum, soggetti che assumevano farmaci per l’iperlipidemia, soggetti con malattie metaboliche croniche) interfacciando il loro profilo lipidico con lo stato di allattati al seno. I soggetti sono stati classificati in tre gruppi: nessun allattamento al seno; allattamento al seno per sei mesi; allattamento al seno per più di 9 mesi. E’ stata curata l’omogeneità dei gruppi (per età, sesso, BMI, livello di educazione, esercizio fisico e stile alimentare). Ciò che è risultato è stato che la durata dell’allattamento al seno non condiziona il profilo lipidico: tutti e tre i gruppi (incluso quello dei non allattati al seno) non hanno mostrato differenze statisticamente significative del profilo lipidico.

Commento: la certezza che allattare a lungo non determina alterazioni del profilo lipidico nell’adulto (L’Hertfordshire study aveva insinuato dubbi) conforta senz’altro coloro che decidono di adottare questo atteggiamento. E’ comunque testimoniato da questo studio che non ci sono rischi, su questo versante, anche per coloro che non beneficiano di latte materno. 

Dr. Stefano Tasca - Neonatologia Aurelia Hospital

ETA' DI INTRODUZIONE DEI PRIMI CIBI COMPLEMENTARI NEI LATTANTI: REVISIONE SISTEMATICA

Qasem W1,2, Fenton T3, Friel JAge of introduction of first complementary feeding for infants: a systematic review.BMC Pediatr. 2015 Sep 2;15:107.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità insiste sull’inizio dell’alimentazione complementare a 6 mesi lasciando al solo seno l’onore e l’onere di supplire ai fabbisogni di crescita. Questo può determinare (io ne sono convinto da anni essendo uno strenuo sostenitore del divezzo a 4 mesi) carenze di ferro e diminuiti apporti di elementi plastici la cui richiesta diviene massiccia quando cambia la qualità di crescita del lattante (massa magra vs. massa grassa). Gli autori di questo studio si sono posti a loro volta questo dubbio ed hanno avviato una metanalisi raccogliendo studi controllati randomizzati e studi osservazionali per valutare, a seconda dell’età di introduzione dei solidi, lo stato del ferro dei bambini. I risultati sostengono l’ipotesi che svezzare a 6 mesi sia “azzardato” visto che i bambini con solidi nella dieta a 4 mesi hanno costantemente mostrato più alti livelli di emoglobina rispetto a quelli con solidi a 6 mesi ed oltre. Non solo: i bambini svezzati a 4 mesi hanno mostrato anche più alti livelli di ferritina e questo sia in Paesi occidentalizzati che non.

Commento: Certamente gli autori sottolineano che i follow.up e le dimensioni dei campioni non fossero particolarmente rilevanti numericamente. Nondimeno l’evidenza suggerisce di porre attenzione a questo aspetto della nutrizione infantile: il latte materno va proseguito il più a lungo possibile ma va sostenuto, al quarto mese, con l’introduzione di alimenti che suppliscano alle richieste notevoli di elementi a partire da questo momento

Dr. Stefano Tasca - Neonatologia Aurelia Hospital