L'uomo come "ente biologico: considerazioni utili per opportune scelte alimentari

L’uomo, spogliato della sua  nobile veste di essere pensante ed autocosciente, condivide la sua struttura di base con tutti gli altri viventi, siano essi piante, batteri od animali superiori.
Con essi spartisce il territorio, compete per la sopravvivenza, tramanda i suoi geni e poi diviene, con la morte, un cumulo di sostanze semplici che rientrano in circolazione una volta disperse nell’ambiente.
Nello spazio che separa il concepimento dalla morte egli è soggetto a leggi molto rigide sulle quali si modella il tipo di vita che le caratteristiche fisico chimiche del pianeta Terra (calore, atmosfera, umidità, ecc.) rendono possibile. Nella sua accezione più semplice vivere significa acquisire un equilibrio stabile con l’ambiente per tramandare geni atti a creare nuova vita. Sono i geni stessi che conducono il gioco, codificando e presiedendo alla formazione di strutture organiche capaci di ospitarli, conservarli e trasmetterli.
Se scaviamo nel nucleo di una cellula qualsiasi (una cellula nervosa dell’uomo, una cellula intestinale del cane, una cellula muscolare di un coccodrillo, ecc.) facciamo una scoperta per certi versi angosciosa: la maggior parte dei geni sono condivisi, vale a dire che ogni essere vivente, per quanto la sua forma sia peculiare una volta raggiunto il pieno sviluppo e la differenziazione, assomiglia in quanto a materiale di base a tutti gli altri.
Nascere, crescere, riprodursi e morire sono fenomeni che riguardano l’involucro, la forma. Ciò che sopravvive e non è soggetto a deperimento è la parte progettuale, i cromosomi, i quali, anzi, nel passaggio da un individuo all’altro ricavano benefici, modificandosi in relazione all’ambiente e divenendo sempre più “perfetti”.
Mi sono dilungato in questa premessa poiché è necessario, prima di affrontare l’argomento nutrizione, inquadrare la “vita” come fenomeno strettamente biologico.
Possiamo paragonare ogni uomo, ed ogni altro essere vivente, ad una stazione spaziale che ha iniziato un viaggio nell’Universo miliardi di anni fa e continua a muoversi nello spazio senza una meta precisa. In questa stazione sono presenti macchinari altamente specializzati (capaci di ricavare energia ed elementi strutturali dallo spazio in cui naviga il veicolo man mano che si sposta) guidati da un elaboratore di dati nel quale, oltre al software di gestione delle apparecchiature, è depositato il progetto della stazione stessa. Si tratta di una struttura molto complessa che, seppure tecnologicamente perfetta, consuma una grande massa di carburante ed è soggetta ad un rapido e continuo logorio, ma è capace di modificare le proprie caratteristiche architettoniche od i limiti di operatività delle apparecchiature in base alle condizioni dello spazio in cui si trova. Per muoversi e per garantire il funzionamento degli apparati questa stazione impiega molta energia che  ricaverà dallo spazio utilizzando, tra gli elementi vaganti, quelli che, con le minori elaborazioni, possano fornirne la maggior quantità. Ha inoltre bisogno di materie prime da utilizzare sia nell’ampliamento delle parti già esistenti, sia nella sostituzione di quelle che man mano deperiscono. I materiali le possono giungere sotto forma di elementi semplici oppure di elementi complessi preformati (grossi meteoriti, parti di altre stazioni distrutte). Questi ultimi, se non compatibili col progetto depositato nel software, verranno, dai macchinari della stazione, ridotti ad elementi utilizzabili e ad elementi inutili che saranno gettati nello spazio (magari successivamente captati da stazioni differenti che, nel loro progetto, ne prevedano l’integrazione). Se gli approvvigionamenti di energia sono scarsi potrà, seppur con fatica, adattarsi a ricavarne da elementi che in origine servivano ad altro. Se a mancare sono le materie prime, essa cesserà di ingrandire le sue strutture od eliminerà parti non essenziali di se stessa oppure ancora le riutilizzerà per sostituire quelle maggiormente deteriorate e vitali. Se, per finire, il logorio dei macchinari sarà tale da non consentire una riparazione od un buon funzionamento oppure se cesseranno del tutto gli approvvigionamenti di energia e di materiali, la stazione smetterà di funzionare, interromperà il suo viaggio e si sfalderà disperdendosi nello spazio.
Riportiamo ora l’uomo – stazione spaziale a quello che è nella realtà. Anche l’uomo biologico è in viaggio da miliardi di anni (ovviamente non sotto le spoglie che ha attualmente assunto) e non conosce, come nel caso della stazione spaziale, la sua meta. Come ente biologico è fornito di macchinari interni (gli organi e gli apparati coi loro sistemi metabolici), di una struttura esterna (l’apparato osteomuscolare) e di un software (i cromosomi). L’energia gli proviene dalla combustione degli zuccheri e dei grassi (farinacei, amidacei, saccarosio, lipidi vegetali ed animali), mentre i materiali di costruzione sono rappresentati dai sali minerali, dall’acqua, dalle vitamine e dagli aminoacidi (come tali o sotto forma di proteine che ricava da piante ed animali). E’ capace di ricavare energia anche da fonti che, in origine, erano destinate ad altri scopi (ad esempio grassi dagli zuccheri, zuccheri dalle proteine, ecc.) ed è programmato per riutilizzare parti di se stesso quando gli approvvigionamenti esterni sono insufficienti. Il suo destino è identico a quello della stazione spaziale: una volta esaurite e logorate le strutture, si sfalda e le sue parti verranno riutilizzate da altri enti biologici. E’ inutile dire che tutti i processi cui ho accennato devono svolgersi in perfetto ordine, in precisa sequenza e rispettando determinate proporzioni tra energia ricavata ed energia dispersa.
Queste proporzioni, in ogni latitudine e per tutte le razze umane, sono costanti: circa il 60% di carboidrati, circa il 20% di grassi e circa il 20% di proteine, oltre a quote fisse di vitamine, acqua e sali minerali, sono i fabbisogni da soddisfare ogni giorno. L’unica cosa in cui vi sono differenze sono le fonti da cui gli uomini ricavano gli elementi sopra citati, in base all’ambiente in cui si trovano a vivere. I carboidrati, i grassi, ecc., sono presenti, infatti, in moltissimi alimenti diversi tra loro e non tutti contemporaneamente presenti in tutti i luoghi. Ogni popolazione umana, quindi, li ricaverà dai vegetali e dagli animali che ne  condividono il territorio.

LA BIODIVERSITA’
L’alto grado di “flessibilità” dell’organismo umano rende ragione della sua estrema adattabilità alle più diverse condizioni ambientali e del successo che ha ottenuto in natura. Basti soltanto pensare che la nostra specie ha colonizzato, acclimatandosi, ambienti molto ostili ed estremamente diversi tra loro (i ghiacci del Polo o l’Equatore, i deserti africani o le isole del Pacifico), adeguando il fisico all’ecosistema ospite con meccanismi genetici di selezione nonché modificando l’ambiente stesso per ottenerne il massimo dei benefici col minimo degli svantaggi.
Non a caso, in questa introduzione, si sottolineano le diversità organiche e metaboliche esistenti tra i vari gruppi che compongono la specie umana in base al luogo di origine.
Per quanto i fabbisogni dell’organismo umano siano, entro limiti ristretti, uguali per ogni individuo, l’ambiente in cui si sviluppa una determinata popolazione induce cambiamenti, nella popolazione stessa, tali da renderla peculiare rispetto alle altre in quanto a tratti somatici e funzioni fisiologiche.  Ogni ecosistema possiede caratteristiche specifiche non solo di tipo geografico ma anche, in relazione a queste, faunistico e floreale. In termini semplici ogni ambiente presenta, dal punto di vista climatico, determinate peculiarità che influiscono sulla variabilità genetica delle popolazioni autoctone.
Se si prende ad esempio una fascia climatica nordica, caratterizzata da escursioni termiche stagionali scarse e con un’umidità relativa bassa, troveremo, in questo ecosistema, un certo tipo di vegetazione (conifere, praterie) ed una fauna selvatica adattata a queste condizioni. L’uomo che volesse vivere in un clima del genere dovrà essere capace, sfruttandone le risorse, di disperdere meno calore (aumento del pannicolo adiposo, vasocostrizione periferica, minore superficie corporea in mq.) e di  produrne in maggiore quantità (ad esempio con un’alimentazione prevalente in grassi più che in carboidrati e con un alto consumo di proteine). Inoltre, per il minore irraggiamento solare di quelle regioni, la sua pelle sarà meno ricca di melanina (colore chiaro, capelli biondi, occhi azzurri). Per attuare coltivazioni ed allevamenti in queste regioni egli dovrà scegliere piante ed animali che siano compatibili col clima e con la chimica del suolo. La composizione degli alimenti che porterà in tavola sarà profondamente condizionata dagli elementi appena descritti (presenterà, ad esempio, una maggiore o minore concentrazione di sali nei vegetali, una maggiore o minore quantità di grassi nel latte vaccino, una più o meno abbondante quantità di ferro nelle carni rosse, ecc.).
L’assetto fisico e metabolico del “soggetto nordico” non sarà, per tali ragioni, adeguato a situazioni climatiche opposte. In un ambiente caldo umido e forestale troveremo infatti un “soggetto equatoriale” che sarà costretto a disperdere calore, a produrne di meno, ad avere minori grassi di accumulo e via dicendo, pur condividendo i fabbisogni di base che rimangono uguali per entrambi.
Se nutrissimo un nordico con gli alimenti tipici della zona equatoriale (o viceversa) indurremmo, a breve o a lunga scadenza, delle alterazioni organiche che si tradurrebbero in disagi o malattie (anemie, malattie metaboliche, dislipidemie, disturbi gastrointestinali, ecc.).
Dal punto di vista metabolico, infatti, tralasciando le macroscopiche differenze indotte nell’aspetto esteriore degli individui, vi saranno variazioni altrettanto marcate. Un beduino, che vive nel deserto, avrà un apparato urinario maggiormente specializzato a risparmiare sali e liquidi ed a tollerare alti carichi proteici, un rallentamento nei processi di produzione del calore endogeno, un minore bisogno di alimenti ad alto contenuto di energia, una capacità vasomotoria periferica che sia adeguata alla dispersione di calore, un assetto metabolico corretto per l’utilizzo di alimenti conservati sotto sale (carne disseccata), un aumento della secrezione sebacea della cute per la protezione dalla disidratazione. Chi, viceversa, popola un ambiente montano dal clima freddo secco e con una minore tensione di Ossigeno nell’aria, avrà caratteristiche ematochimiche peculiari (un maggior numero di globuli rossi), minore traspirazione (risparmio dei liquidi corporei), un attivo metabolismo dei grassi con una tendenza a formare adipe di riserva, una capacità vasomotoria periferica atta al risparmio di calore (costrizione), un bisogno di apporti nutrizionali ad alto contenuto energetico, una accelerazione dei consumi dettata anche dall’aumento dell’attività fisica, ecc.

GLI EUROPEI
Gli europei sono una popolazione eterogenea. Il territorio, nella sua pur contenuta estensione, offre ben cinque diversi biomi. Dal ghiaccio perenne del Nord della Norvegia e della Russia, passando per la tundra e per la porzione continentale che include Germania, Francia, Olanda, Belgio, ecc., si arriva alla nostra Italia ed alla Spagna, quasi al confine col Tropico (Sicilia, Gibilterra). La presenza del Mediterraneo mitiga in modo sostanziale la temperatura e l’umidità relativa delle regioni Italiane del Sud ma, in Spagna, dove questo effetto ammortizzante del mare è spento dall’estensione in latitudine, si trovano zone aride.
Applicando all’Europa quanto descritto più sopra, ci aspettiamo che al variare delle caratteristiche ambientali, differenti anche per potenzialità produttive dal punto di vista alimentare, corrispondano diversità biologiche e somatiche delle popolazioni che vi abitano da millenni.
Nelle Nazioni del Nord Europa, ad esempio, vi sarà maggior consumo di amidacei (patate, tuberi) e grassi animali (non vi sono uliveti né colture di vegetali dai quali possa essere estratto olio), cosa che, nei millenni, ha reso le popolazioni autoctone atte, dal punto di vista enzimatico e metabolico, al miglior utilizzo di questi nutrienti. Un Tedesco del Nord od uno Svedese, quindi, avranno una prole che, geneticamente, rispetterà già dalla nascita questa tendenza.
Stessa situazione si rileva in Italia dove la produzione alimentare è prevalente in graminacee (cereali glutinati e non), verdure a foglia, pesce, latte vaccino od ovino, olii vegetali.
Nello svezzamento si dovranno tenere in debito conto questi fattori poiché ciò che può essere valido, dal punto di vista dietetico, per un soggetto mediterraneo può non esserlo per un soggetto continentale o nordico e viceversa. Le frontiere politiche, in questo caso,  non corrispondono a quelle biologiche.
Ho ritenuto utile questa premessa per poter introdurre un argomento importante sullo svezzamento: la differenziazione della qualità degli alimenti e dei loro tempi di introduzione rispetto alla fascia climatica in cui si sono “forgiati” i geni del bambino.
Nel progettare la dieta per un lattante in fase di divezzo bisogna tenere in debito conto quella che sarà la sua dieta una volta adulto. Nella fascia mediterranea l’uso del latte vaccino, dei farinacei, dell’olio di olivo e dei formaggi, è stabilizzato da secoli, quindi è certo che l’assetto genetico dei piccoli Italiani preveda, a livello metabolico e digestivo, una disposizione favorevole verso questi alimenti. Una buona disposizione genetica garantisce una certa libertà di gestione dell’alimentazione a patto che si operi nell’ambito dei limiti da essa stessa imposti e nel rispetto della tradizione alimentare del popolo in questione.
 

La libera circolazione di alimenti e derrate all’interno di territori molto ampi e diversi fra loro (globalizzazione) è relativamente recente e non ha ancora influito sulle caratteristiche genetiche e somatiche delle popolazioni che ne fruiscono. Dove ha, invece, creato alterazioni è sul comportamento alimentare che non ha nulla a che vedere coi reali fabbisogni dell’organismo.
Sono in costante aumento, nei paesi industrializzati, le obesità, il Diabete, le malattie cardiovascolari, tutti “effetti collaterali” di diete errate, sganciate da una visione razionale dell’individuo in relazione ai rapporti che contrae col suo ambiente ed al tipo di vita che lo caratterizza.

LO SVEZZAMENTO
La parola “svezzare” (o “divezzare”) ha un’origine antica che risale ai tempi in cui non esistevano alternative valide al latte materno e si sopperiva alle eventuali carenze della puerpera con l’allattamento baliatico, cercando una donna che, a pagamento, fornisse al neonato il latte di cui aveva bisogno.
In quel tempo il termine “svezzare” si riferiva alle procedure volte a “togliere il vezzo” di succhiare dalla mammella l’alimento, sostituendo il latte di donna con altri tipi di latte o con alimenti complessi.
Se applicassimo ai tempi d’oggi questa nozione, ci troveremmo a classificare come svezzamento anche l’uso, nel neonato di pochi giorni, di latti artificiali somministrati col biberon, dato che, ormai, delle balie si è perduto anche il ricordo.
Come in ogni altro campo della scienza, anche in questo caso è avvenuto un aggiornamento della terminologia. Svezzare, oggi, significa integrare l’alimentazione esclusivamente lattea (non importa se si tratta di latte materno od artificiale) con elementi di natura, derivazione e composizione sostanzialmente differenti (pappe di farinacei, verdura, frutta, carne, pesce, uova, ecc.).
Scopo principale dello svezzamento è quello di garantire al bambino un introito bilanciato e sufficiente di proteine, sali, grassi e carboidrati, in stretta relazione con la  velocità di crescita, l’età, i fabbisogni,  il grado di maturazione dell’apparato digerente e l’efficienza dei sistemi metabolici.
Non si può trascurare, per razionalizzare la dieta del lattante in fase di divezzamento, un elemento fondamentale che interviene nella maturazione degli organi e cioè l’esercizio graduale, prudente ma costante degli stessi. In altri termini potremmo dire che se è possibile provocare danni con la somministrazione di alimenti complessi nel momento sbagliato, è altrettanto vero che se gli stessi alimenti non vengono presentati nelle giuste proporzioni e nel giusto momento alle strutture atte al loro utilizzo, la maturazione di queste stesse strutture rallenta.
E’ esattamente quello che accade nei muscoli con l’esercizio fisico. Ognuno di noi è dotato di strutture muscolari “potenzialmente” capaci di funzioni complesse la cui attuazione è però possibile solo con l’esercizio. Il vecchio detto “è l’uso che fa l’organo” può essere efficacemente applicato anche al sistema digerente ed ai processi metabolici del bambino.
Difficilmente otterremmo il sollevamento di 50 Kg da un individuo non allenato ma, dopo un periodo di training, è verosimile che questo esercizio divenga realizzabile se le condizioni sono favorevoli per l’età del soggetto, per le sue condizioni fisiche, per la sua propria struttura anatomica ecc.
Svezzare non è un optional ma una necessità dettata da ragioni fisiologiche irrinunciabili. Il discorso sarebbe molto complesso al riguardo, ma tenterò di formularlo nel modo più semplice e lineare possibile così da rendere comprensibili i termini della questione. In altre pagine di questo sito, naturalmente....