Obiettività ed imparzialità

Anni fa, nel mio forum mammeonline, una mamma pose un quesito piuttosto interessante a cui diedi una risposta (palesando ovviamente un'opinione, non certo pretendendo di dare una risposta definitiva) che, alla luce dell'esperienza, mi sembra tuttora utile come chiave di interpretazione: l'obiettività e l'imparzialità nell'educazione sono possibili?

Rileggendo a distanza di tempo quel piccolo testo l'ho trovato attuale e quindi volentieri ve ne meto a parte.

 

DOMANDA: Da qualche giorno rimugino su un argomento un po' nebuloso.
E' un argomento generale che però si concretizza facilmente nella vita di ciascuno di noi: nell'educazione dei figli, nei rapporti con gli altri. Per qualcuno, anche nel proprio lavoro.

E' il discorso sulla neutralità, sull'imparzialità, sulla capacità o meno di essere "super partes".

Solitamente si tende a prendere questo atteggiamento, di neutralità appunto, come un valore.
Spesso mi capita di sentir dire "a mio figlio non voglio trasmettere opinioni, voglio che pensi di testa sua", oppure sovente si invoca, che so, un giornalismo imparziale, una televisione imparziale, e via dicendo.

Fermo restando che l'imparzialità è uno sforzo, e che secondo me, tutti tendiamo, naturalmente a "parteggiare" per qualcosa (o per qualcuno), mi piacerebbe riflettere su quali sono gli ambiti dove questo sforzo vale la pena di essere intrapreso, e fino a che punto, e a quale prezzo.
E quanto sia realistica l'aspirazione, se giustificata, ad una totale neutralità.
Gli ambiti cui mi riferisco posso essere svariati: si va dal personale, dalla propria sfera di affetti, dal rapporto con i figli, al lavoro, alla "res pubblica"...
E' un discorso complicato, mi rendo conto.
Ed è un discorso che può essere capovolto passando, appunto, dalla sfera personale alla sfera pubblica, dal rapporto che si ha con chi "impara" da noi (chessò: rapporto figlio-genitore, alunno-professore, informatore-informato) al rapporto che si ha con chi è nostro "pari" (amico, famigliare, collega).

RISPONDO:
Ho in mente un’immagine che mi si è formata in testa molto giovane (i miei 15-16 anni vissuti negli anni ’70… ero, come tutti, suggestionabile) a seguito della lettura di un bel libro divulgativo di Psicologia Generale (credo che l’autore fosse Pierre Daco). Si parlava della realtà e della sua visione in relazione alle proprie personali percezioni della medesima.
Ad un tizio segregato viene regalata una radio. Non gli viene spiegato come funziona…solo gli si dice che si può accendere e spegnere. La trasmissione (o le trasmissioni) che ascolta sono quindi “fisse”…sempre dalla stessa emittente.
Cosa crederà questo tizio? Che la realtà si identifichi in QUELLA stazione trasmittente. Il “verbo” che ne scaturisce sarà per lui l’unica realtà….la radio, per lui, si identificherà con QUELLA emittente….le parole che ascolta saranno le uniche a formare la sua opinione della realtà.
Un giorno scopre la manopola della sintonia e si rende conto che esiste una grande serie di emittenti le cui trasmissioni sono estremamente varie e variegate, talora divergenti tra loro in quanto a contenuti. Cosa fa il tizio?
Nella mia mente di sedicenne (all’epoca…ma ho ancora questa sensazione) si formarono tre ipotesi:
1) Il tizio HA PAURA della realtà così come gli viene all’improvviso davanti. Perde certezze, perde sicurezza, è COSTRETTO in qualche modo a pensare e a scegliere. Il disagio che ne proviene lo fa precipitosamente tornare sui suoi passi. La manopola della sintonia viene subito riportata nella posizione originaria
2) Il tizio E’ ENTUSIASTA e salta continuamente di stazione in stazione, ascoltando tutto l’ascoltabile. Il suo modo di porsi di fronte a questa nuova scoperta, però, è acritico. Egli da importanza non al contenuto di quanto ascolta ma al semplice atto dell’ascoltare e del cambiare continuamente. La radio diviene allora magnifico veicolo di immagini e di idee ma in questa ipotesi la voce più autorevole diviene quella che alle sue orecchie è più suadente, non quella che magari è meno fascinosa ma comunica argomenti di buonsenso. Dato che in OGNI opinione vive un germe di verità, egli sposerà le tesi ora dell’uno, ora dell’altro, seppure antitetiche, basandosi sull’umore del momento oppure in relazione alla seduzione che un parlare forbito o una voce ben impostata avranno sulla sua anima. La manopola della sintonia, in questo caso, sarà continuamente tormentata ed il tizio non si soffermerà mai abbastanza su ciascuna emittente per valutarne appieno i contenuti.
3) Il tizio E’ MERAVIGLIATO da questa nuova possibilità che in parte lo spaventa ed in parte lo entusiasma. Spavento ed entusiasmo vivono contemporaneamente in lui e creano un mix positivo. L’entusiasmo lo porterà a cambiare stazione mentre la paura lo indurrà ad ascoltare e riflettere.

Dopo questa premessa vengo (finalmente) alla domanda. Essere o meno “neutrali”, a mio giudizio, non è importante anche e soprattutto perché è impossibile conservare la neutralità. Quello che è importante è ciò che fa il tizio nella situazione (3), posizione nella quale si raggiunge un buon equilibrio nella formazione delle opinioni e nella loro comunicazione. Chi infatti (ad ogni livello, sia privato che pubblico) conserva in se due componenti che sono connaturate all’animo umano, cioè l’entusiasmo e la paura, nelle situazioni di confronto (e di scontro, all’occasione) saprà fare una cosa che, secondo me, è fondamentale: ascoltare e cercare di capire.

Non importa se nella mente vivono convinzioni divergenti da quelle altrui (quindi non importa essere neutrali e pretendere neutralità)…quello che importa è che non dominino o solo la paura (chiusura totale ed arroccamento nelle proprie posizioni) o solo l’entusiasmo (incapacità di soffermarsi su una qualche convinzione derivante dall’analisi della realtà così come la si percepisce).

In pratica: la capacità di ascoltare e capire rende possibile valutare se stessi di fronte a realtà differenti (sia private che pubbliche)…in tal modo si ha l’occasione non solo di accogliere istanze differenti ma anche (eventualmente) di aggiornare il proprio modo di vedere.

A queste due caratteristiche ne aggiungerei un’altra: l’umiltà. Avere convinzioni non significa necessariamente che siano le uniche possibili. Se un mio avversario ha una buona idea non è necessario che io abdichi alle mie convinzioni per poterla accettare e riconoscerne il valore