Un genitore quasi perfetto (B. Bettelheim)

Questo non sarà un riassunto ma semplicemente un’esposizione di quanto la lettura del libro m’ispira, sia in accordo sia in disaccordo con l’autore. Dato che la mia impostazione prende vigore da presupposti differenti (non psicanalitici) i punti di disaccordo saranno probabilmente più numerosi delle identità.

Nella prima parte, dove affronta a scopo introduttivo la composizione del rapporto genitori-figlio, in realtà dice esattamente quanto io ho esposto nell’opuscolo sull’educazione, vale a dire che non possono esistere regole fisse di comportamento del genitore nei confronti del figlio poiché, fatti salvi alcuni princìpi fondamentali, ogni individuo (genitore o figlio che sia) manifesta la propria unica e singolare personalità che, sola, è il cardine su cui si muove l’intero processo evolutivo sia del figlio sia del genitore. Da ciò nasce l’esigenza di modificare gli atti educativi in base alle risposte che man mano il figlio fornisce alle esperienze interne ed esterne alla famiglia. Bettelheim insiste sul fatto che ciò che vive il figlio è stato già vissuto dal genitore alla stessa età. Quest’ultimo, per tale motivo, potrebbe fare più facilmente propri i sentimenti, le passioni, le angosce che caratterizzano il suo attuale rapporto con la prole. L’empatia che ne deriva sarebbe l’elemento principale che guida l’atto educativo risultando utile sia per l’atto educativo stesso (in quanto aiuta il genitore a comprendere le ragioni del figlio) sia per la crescita personale del genitore (che rivivendo attraverso quest’autoanalisi il proprio passato riporta in superficie eventi rimossi o risolve contenziosi col proprio inconscio). L’atto del “mettersi nei panni” comporta una ridiscussione di se stessi alla luce degli anni passati e delle esperienze. Se il genitore adotta questa tecnica è probabile che il figlio, nel tempo, impari a fare altrettanto nei confronti del genitore e della società, vivendo in modo meno conflittuale i rapporti con gli altri. Non solo: la ridiscussione e la revisione dei metodi educativi deve essere continua, da parte del genitore, che perciò nei confronti del figlio assumerà un atteggiamento flessibile, di disponibilità.
Ora, tutte queste belle teorie si scontrano con la necessità pratica di applicarle senza danno per l’uno o per l’altro elemento in gioco.

La manipolabilità dell’uomo mediante condizionamento, proposta da Watson  (che teorizzava la possibilità di fare qualunque cosa di chiunque) è stata ampiamente criticata da Freud (col quale concordo). I principali motivi di contrasto risiedevano in due punti fondamentali:
1) l’uomo nasce già con una base preformata, genetica, sulla quale si sviluppa in seguito, per ampliamento, la personalità. Non si tratta dunque di una “tabula rasa” ma di un germoglio che, pur piccolo, ha già una connotazione di specie e di tipo che ne condizionerà la crescita. Un germoglio di quercia darà comunque origine ad una quercia adulta e non ad un olmo. Si può quindi influire sulle caratteristiche di altezza, robustezza, salute, ma assolutamente non se ne può convertire la specie.
2) L’educazione è ininfluente nel sorgere di profondi conflitti tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere, o tra ciò che si ha e ciò che si vorrebbe avere. Qualunque ottimo educatore, pur rispettando al massimo le esigenze di chi è educato, non potrà mai raggiungere il risultato di allevare una persona totalmente esente da egoismi, problemi di socializzazione, aggressività o quant’altro.
Tutto ciò condiziona, quindi, il ruolo dell’educatore che da fabbro diviene giardiniere. Secondo questa  teoria, infatti, il genitore dovrebbe evitare di cercare una forzatura nel procedimento educativo tentando di fare del figlio ciò che lui vuole (il fabbro che torce e modella il ferro) ma dovrebbe essere attento a coltivare, nel figlio, quelle che sono le naturali tendenze con lo scopo precipuo di farlo crescere secondo la sua forma iniziale, influendo soltanto sulle storture o sulle deviazioni (il giardiniere che agisce potando, concimando, dissodando ma, fondamentalmente, rispettando la tendenza naturale che quella pianta unica ed irripetibile manifesta nella sua evoluzione).
In questo discorso, ovviamente, si tiene conto di un fattore fondamentale: il mantenimento dell’equilibrio e dell’integrazione sociale del beneficiario dell’educazione. E’ intuitivo il fatto che, mediante la coercizione, è possibile modificare la spontanea tendenza dell’individuo ad esprimersi secondo canoni suoi propri, asservendolo così al potere adulto, ma il prezzo che si paga, oltre al rischio di ottenere effetti devastanti sul piano psicologico, è quello di far crescere un individuo perennemente insoddisfatto ed irrealizzato, in conflitto continuo con se stesso e con gli altri.

RIGUARDO ALL’ANSIA GENITORIALE: Bettelheim, riprendendo quanto detto da Winnicott sulla “madre passabile”, espone un’interessante teoria. Il neonato, guardando la madre o comunque chi lo cura, vede in realtà se stesso. Una madre “passabile”, infatti, per la profonda empatia che la caratterizza, mostra sul volto i sentimenti del figlio. Serenità, amore, comprensione sono, per tale motivo, assorbiti dal bambino come immagine delle impressioni che il bambino stesso evoca nel genitore. Se la madre, attraverso lo sguardo, i gesti, la voce, esprime ansia, insicurezza, angoscia, il bambino interpreterà questi sentimenti negativi come caratteristici di quel particolare rapporto e come una sfera negativa nella quale è incapsulato. Ovviamente tutto questo tenderà a generare altrettanta ansia nel bambino che, dal suo canto, diviene l’esatto specchio dei sentimenti della madre. Il sentirsi “sicuri di se” nell’azione educativa (anche quando è limitata a semplici sguardi o gesti) dovrebbe essere la base sulla quale far crescere tutti i semi che l’esperienza getta nel campo della vita del bambino.
Un sistema per acquisire sicurezza è senz’altro quello di rendersi conto della impossibilità di raggiungere la perfezione. Se un genitore non se la pone come obiettivo, si potrà liberare dalla perenne sensazione di inadeguatezza e di costante dubbio generati da ogni atto quotidiano, anche il più semplice. Ogni atto è sicuramente “perfettibile” ma solo nel senso che, rimettendolo in discussione, si può modificare in meglio. A questo punto, però, giova ricordare che non conta la perfezione dell’atto stesso una volta modificato ma tutte le azioni compiute per il suo miglioramento ed i sentimenti che accompagnano il processo della sua ridiscussione.

Gli imperfetti genitori (M. Bernardi)

I GRADINO: LA FAMIGLIA
La famiglia non è solo un’aggregazione di persone riunite dall’esigenza di sostenersi a vicenda per garantirsi una sussistenza ed un benessere economico. Secondo l’esperienza di Bernardi (e condivido pienamente) l’intrusione troppo marcata dell’elemento economico (che sottrae tempo e serenità ai genitori nel loro rapporto col bambino) è un fattore nocivo per l’educazione. La composizione della famiglia, inoltre, è elemento marginale (chi afferma che per “famiglia” si debba intendere per forza quella formata da genitori e figli? E non ad esempio quella formata da un gruppo senza legami di sangue nel quale vivano affetto, protezione, ecc.?). Sicuramente la famiglia “istituzionalizzata” ha una sua ragion d’essere (con tutte le regole che questo impone a livello legislativo e per la tutela dei membri), ma dal punto di vista della funzione reale questo è ben poca cosa. Non è detto che la regolamentazione porti ad un’efficacia maggiore degli atti che si compiono all’interno di una famiglia. Inoltre, a detta di Bernardi, organizzare una famiglia in conformità a criteri “sociali” (all’ingenuo scopo di realizzare all’interno del nucleo tutto ciò che i figli troveranno poi nel mondo) irrigidisce i rapporti e li coarta mediante una serie di “leggi e restrizioni” che rendono pesante ogni relazione. Lo scopo della famiglia dovrebbe essere quello di formare individui pronti, generosi, coraggiosi, responsabili. La buona integrazione nella società sarebbe una conseguenza di questo processo guidato dall’affetto più che dall’imposizione di norme rigide (il cui risultato potrebbe creare buoni sudditi ma cattivi uomini). L’auspicio di Bernardi è che, qualunque sia il tipo d’aggregazione familiare, il tema fondamentale sia quello dell’affetto e della presenza fisica e morale. In questo senso il matrimonio non ha significato: ciò che conta, nella stabilità dei rapporti e dall’affetto come elemento base, è la qualità delle persone in se stesse. Mettere in campo tolleranza, ragionevolezza, generosità (in pratica “accettare gli altri per ciò che sono” senza cercare di cambiarli) è l’unico modo per formare una famiglia in senso proprio. Da questo punto di vista decadono tutti i criteri di definizione (giuridico, economico, formale, ecc.) della famiglia che sono stati eletti come universali dagli “esperti” (antropologi, psicologi, ecc.).
Il rispetto delle aspirazioni di ciascun membro e l’eliminazione di ogni pretesa di manipolazione (anche al semplice scopo di non perdere l’affetto con la crescita della prole) genera quella che si definisce “famiglia aperta”, un nucleo dal quale, con facilità, entrano ed escono informazioni, situazioni, imprevisti, ai quali tutti i membri sono tenuti a adattarsi attraverso la comprensione di ciò che accade (inclusa l’autonomizzazione dei figli, vista in genere come una lacerazione). Ogni cambiamento, inquadrato nel giusto modo, per quanto improvviso e destabilizzante (ad es. la morte o la malattia di uno dei membri), genera un adattamento se, da parte di tutti, c’è la volontà di comprendere ciò che accade ed il desiderio di osservare la realizzazione degli altri come elemento di accrescimento proprio.
Per i genitori, quindi, l’obbligo è di allevare esseri pensanti ed indipendenti non quello di abituarli, anche con mezzi poco etici, a “farsi largo” ed a “conquistare posizioni” al prezzo di un impoverimento (e talora di un’eliminazione) di quanto di umano esiste in ciascuno. Se si cresce “liberi” si eserciteranno le proprie capacità in modo “libero”, cioè flessibile. La forza interiore, a questo punto, sarà autogenerata dalla consapevolezza delle proprie capacità e non indotta da quanto si riesce ad ottenere (non importa come!). In pratica, anche per Bernardi, deve essere coltivato l’essere e non l’apparire. Il buon cittadino non è colui che “accetta il sistema” (anzi, può e deve criticarlo per indurne un miglioramento) ma colui che, in spirito di comprensione, tolleranza e rispetto, accetta gli altri cittadini. Parlare di decadimento dei valori della famiglia è un errore. Tutto ciò che nei secoli è stato attribuito come “valore” alla famiglia è stato dettato da contingenze e convenienze del momento storico e da ciò che, dal punto di vista religioso, politico, sociale, era considerato giusto (e talvolta dogmatico) in quel determinato momento. Non si può quindi parlare di crisi dei valori poiché, essendo i valori un qualcosa di aggiunto e non sostanziale rispetto al significato di famiglia, l’intrinseco ruolo della famiglia come ente non ha avuto alcuna modificazione. In pratica: cambiano le contingenze (ed è giusto che sia così) ma rimangono i fondamenti che, nei secoli, sono rimasti immutati. Non ha senso, per tale ragione, educare i figli secondo “valori” vigenti di una certa epoca, essendo questi assolutamente legati all’evolvere delle situazioni storiche e culturali (e quindi mutevoli). Come facciamo a sapere se, educando i figli secondo quanto attualmente viviamo e vediamo, non creeremo disadattati futuri (quando, per tante ragioni non prevedibili, i canoni di congruità saranno magari contrari a quelli in cui crediamo oggi). Viene in tal modo a corroborarsi la teoria educativa più saggia che è quella di favorire la crescita dell’umanità negli uomini futuri (attualmente bambini o adolescenti) dai quali non ci si “aspetta” che facciano qualcosa di previsto e programmato ma che sappiano, proprio lavorando sulla propria ”umanità”, rendersi autonomamente integrati e capaci d’interazioni buone per se e per gli altri.
Irrigidire i comportamenti educativi su schemi fissi, con precise suddivisioni di ruolo legati alla funzione intrafamiliare o al sesso, rende difficile la flessibilizzazione della prole che si trova a dover combattere contro se stessa per adeguarsi in questo modo di vedere e che, alla fine del processo, sarà portata a fare altrettanto con chi la circonda. La rigidezza comporta chiusura e protezione dalle interferenze e dai “pericoli” esterni al nucleo familiare. Quello che serve è l’uso del discernimento nell’accogliere quanto proviene da fuori, per quanto problematico e frastornante, interpretandolo e facendolo interpretare dagli altri membri con un atto spontaneo e non imposto.
 

II GRADINO: LA COPPIA
Per innumerevoli motivi la coppia non è elemento burocraticamente ed amministrativamente (nonché giuridicamente) indissolubile, essendo formata da persone, soggette ad evoluzione e mutamento. Il collante della coppia è quanto di meno codificabile esista: l’amore.
La coppia, quindi, non è una realtà assoluta ma solo un’ipotesi (parole testuali di Bernardi). L’ipotesi di un’unione duratura e felice ma tutta da verificare. Nel momento in cui si decide di avere un figlio, quindi, quest’ipotesi dovrebbe essere già verificata, dato che i genitori rappresentano, per il bambino, tutto ciò su cui può contare e ciò che gli serve per vivere (il grado di accordo e di sintonia dovrebbe essere buono PRIMA della nascita e nel momento in cui si prende la decisione di procreare). Il figlio non dovrebbe essere un collante ma un complemento di un qualcosa che già vive ed è autonomo. Il grado d’affetto che caratterizza il rapporto tra i genitori è il metro su cui cresce la personalità del bambino. In pratica se (com’è vero) i genitori tra loro si amano e sono in accordo, si crea un unico corpo “amatorio” dal quale il bambino prende vigore, incoraggiamento, protezione, serenità. La dissoluzione tra i membri adulti della coppia genera disorientamento nel bambino il quale è costretto a faticare per amare “separatamente” gli elementi di quel corpo unico, dato che amarne uno per volta significa automaticamente escludere l’altro da una porzione dell’amore. A questo si può aggiungere l’uso strumentale che il genitore fa del figlio in caso di disaccordo col partner: dato che tutto si fa per il bene del bambino, un’eventuale separazione viene da entrambi invocata per i difetti dell’altro spacciati come nocivi per la prole ma in realtà non “digeriti” dai membri adulti (e qui i figli c’entrano poco). La prole, in questo caso, è coinvolta in prima persona, sentendosi responsabile del disaccordo nato tra i genitori. A questo segue il tentativo, separatamente attuato da entrambi i genitori, di “tirare” il figlio dalla propria parte (parlando in modo poco lusinghiero dell’altro e “viziando la vittima” per la propria parte). La lotta per l’affidamento, in caso di divorzio, è, in questi casi, attuata per ottenere una pacificazione con la propria coscienza: “se l’hanno affidato a me vuol dire che la colpa di tutto era dell’altro”.
Oltre a tutte le ripercussioni psicosomatiche derivanti dal calvario cui il figlio è sottoposto in questi casi, nasce un nuovo elemento di destabilizzazione nella mente del bambino: la paura dell’abbandono, alla quale si aggiunge la caduta della fiducia nel mondo e nelle persone in generale, dato che i capostipiti della fiducia lo hanno deluso (i genitori che, col divorzio, con la separazione o semplicemente col disaccordo, hanno tradito il mondo di sicurezza e serenità su cui si modellava la sua psiche). Anche per Bernardi, come per me, l’accordo tra i genitori e la sinergia delle loro forze, corrobora e solidifica la salute psichica del bambino, influendo pesantemente anche su quella fisica (malattie psicosomatiche). E’ un dato di fatto incontrovertibile che i bambini sereni si ammalano meno!


III GRADINO: LA RICERCA DELL’UNIONE
Secondo Bern. la stabilità della coppia si regge sulla reciproca indipendenza dei suoi membri. Gelosia, possessività, sospetto, prevedibilità sono quanto di peggio. Nella formazione della coppia sono importanti, al fine della stabilità, proprio quegli spazi d’indipendenza che ciascuno conserva per sé, pur condividendone i piaceri raccontandosi all’altro. Qualche piccolo tassello di libertà nel godere dei propri esclusivi hobbies e dell’amicizia di persone diverse dal coniuge rende più interessante il colloquio tra i membri della coppia ed allontana, seppure non elimina, la noia e l’abitudine. Secondo Bern. la totale prevedibilità trasforma una persona in un oggetto (sicuramente più facile da abbandonare di una persona). Ora: egli in sostanza dice, quasi usando le stesse parole, quello che ho scritto sull’opuscolo della famiglia (complicità, accordo, univocità d’intenti) riguardo alle caratteristiche della coppia nel momento in cui nasce un figlio. Rispetto reciproco e civiltà dovrebbero essere mantenuti in ogni situazione, anche nel caso (deprecabile ma possibile) in cui, nonostante la buona volontà, il rapporto si interrompa. Il figlio non dovrebbe essere eletto giudice dei litigi né dovrebbe essere tirato dentro ad una situazione dalla quale non può sapere come disimpegnarsi (dato che, amando entrambi i genitori, non può, se non a caro prezzo, dar ragione all’uno o all’altro). Il bambino deve essere libero di accedere all’affetto di entrambi i genitori, senza restrizioni e senza remore: se poi, fuori della famiglia, il padre e la madre hanno una vita propria e non si frequentano, al bambino non importa. Caso mai il problema si pone nell’adolescenza, quando il ragazzo ha già, in parte, assorbito i canoni generali di un determinato modo di condurre la vita in famiglia. Anche in questo caso, però, ciò che conta è il fair play. In relazione all’età dei bambini la strategia migliore è quella di dire sempre le cose come stanno, in modo obiettivo, adeguato all’età del bambino o del ragazzo e nel reciproco rispetto. Mai essere troppo espliciti nell’esprimere le opinioni sull’altro coniuge, specie se l’emotività prende il sopravvento. Infine sarebbe opportuno che la separazione dei genitori non comporti, per il bambino, troppi sconvolgimenti nelle abitudini di vita (cambio di casa, scuola, amici, ecc.).

LA FIGURA MATERNA
Troppo spesso ci si dimentica che la Madre (con la M maiuscola, a rappresentarne l’archetipo), come ente erogatore d’affetto, di solidarietà, di tenerezza, ecc., è stato mitizzato. La madre può essere incarnata anche da persone che, a prescindere dal sesso, riescono a sopperire alla funzione che alla Madre è tradizionalmente affidata. La biologia c’entra poco. Insieme a tante altre ansie, alla mamma moderna è caricato anche un ulteriore motivo di angoscia: quello di non essere all’altezza del ruolo “mitizzato” della Madre, pena l’essere additata alla pubblica esecrazione. La Madre deve sacrificarsi, deve soffrire in nome di un affetto supremo, deve cancellare se stessa per sublimarsi attraverso i figli in una forma incorporea quasi al livello degli angeli. E’ più che legittimo, di fronte ad un tale compito, che la donna moderna si senta impreparata all’angelicazione.
Bern. pensa (ed io sono pienamente d’accordo) che la madre è, prima di tutto, una persona sicuramente soggetta a doveri ma anche fruitrice di diritti.
Ciò che accade, e che ho constatato anch’io, è il sorgere di comportamenti della donna volti alla rassicurazione di se stessa come buona Madre. Il figlio che cresce, va a scuola, ecc. non è visto con la soddisfazione di chi sta contribuendo a creare un uomo ma con la trepidazione di chi, attraverso la constatazione di successi e salute, ha aderito a determinati canoni e può toccarne i risultati. Di qui nascono le “madri nutrici” secondo le quali il bambino è sano se è grasso, oppure le “madri di geni” per le quali i successi scolastici o sportivi sono condizione inderogabile per dimostrare a se stesse la bontà delle azioni compiute. A questo ritratto corrisponde (ed è invalso un uso capzioso e strumentale della figura) ciò che i mass media propongono quotidianamente sia sotto forma di pubblicità sia di “informazione”. L’estremizzazione delle procedure proposte porta la madre a credere che l’inattuazione di quanto letto o sentito corrisponda ad un tradimento del proprio ruolo. Ogni teoria è immediatamente sposata ed applicata (anche se, dopo qualche mese, è totalmente contraddetta dagli stessi personaggi che l’hanno proposta come assoluta e definitiva). Su quest’ansia si basano molte teorie di Marketing, volte al moltiplicarsi dei consumi attraverso l’uso di tecniche ricattatorie (se non si fa in un certo modo succedono sfracelli).
La sostanza di quanto dice Bern. (e sono assolutamente stupito della coincidenza perfetta con quanto scrivo e penso anch’io) è che una madre realizzata come persona, con i suoi interessi, con i suoi spazi, serena e soddisfatta, è una madre innegabilmente migliore di una forsennata alla perenne ricerca di teorie, sempre a disposizione (anche quando le forze non glielo consentono), in perenne sacrificio di sé, indisponibile per chiunque tranne che per il figlio. Una donna così non può, alla fine, non ricercare a tutti i costi una identificazione di se nel figlio stesso al quale, prima o poi, rinfaccerà di non aver realizzato tutto ciò che lei (che ha fatto tanto!) sperava di vedere.
La figura materna è il mezzo col quale il bambino conosce il mondo. Già nelle primissime fasi della vita, osservandone il volto, il bambino ha la sensazione di vedere se stesso all’esterno di se stesso. Importante è quindi l’atteggiamento di rassicurazione e di serenità che questo volto gli trasmette. Ansia, preoccupazione, ecc. sono percepiti dal bambino come sentimenti evocati dal suo contatto con la madre. Col tempo il bambino si rende conto di non essere un’appendice del corpo materno ma un ente a se stante. Questo, seppure lo riempie di voglia di esplorare e si sperimentare, fa sorgere in lui l’angoscia da separazione. Egli sa che la madre potrebbe anche non esserci. In questa fase, dato che non può esercitare un dominio completo sull’oggetto del proprio amore, il bambino proietta la sua ansia di possesso dell’oggetto d’amore al di fuori del rapporto madre-figlio, eleggendo un “oggetto transizionale” (pupazzo, lenzuolo o simili) che rappresenti una rassicurazione sulla persistenza dell’amata anche in sua assenza. L’evoluzione di questo fenomeno, con la crescita, sarà verso la formazione di “oggetti culturali” (religione, etica, patria o quant’altro) nei quali il soggetto, ormai adulto, può credere e su cui può contare. I pianti notturni del lattante, gli incubi, ecc. sono la rielaborazione dell’angoscia che il b. prova al pensarsi “abbandonato” dalla madre. L’identificazione sessuale passa attraverso la fase edipica. Nel caso del maschio il padre è visto come un elemento di disturbo al contempo odiato (gli sottrae le attenzioni della madre, dorme con lei) ed ammirato (per la forza, il coraggio, il carisma, la capacità di far cose che egli non riesce a fare). Per la femmina accade le stesso con la madre della quale, per catturare l’attenzione dell’amato, assumerà atteggiamenti, vezzi, ecc. e della quale, pur conservando una quota di “gelosia”, ammirerà l’eleganza e le capacità ammaliatrici. Tutto questo avviene nella norma. Ogni interferenza in tali processi può provocare arresti dello sviluppo psichico a vari livelli. Conoscendo i livelli di sviluppo è più semplice, per il genitore, valutare gli eventi ed interpretarli come anomali o normali. E’ in ogni modo richiesta serenità in ogni atteggiamento, per ottenere la quale devono essere verificate le ipotesi che sopra si accennavano, in altre parole serenità del rapporto, chiarezza nella comunicazione, indipendenza ed autonomia fisica e dei sentimenti, accoglienza del bambino come evento a completamento di un rapporto già consolidato nel quale si sia compiuta una scelta consapevole e si possieda univocità d’intenti (progetto educativo costruito insieme nel quale non interferiscano contraddittori troppo marcati od incongruenze di comportamento).

LA FIGURA PATERNA
Come sopra accennato la figura paterna è altrettanto importante di quella materna seppure su piani differenti. La madre rappresenta il nido, la protezione, il calore ed è la prima figura che il bambino riconosce come un’appendice viva e rassicurante del se. Il padre, in diverse fasi, rappresenta la controparte della figura materna, cioè l’elemento che garantisce alla diade madre-figlio la sussistenza e la protezione, facendo da tramite col mondo esterno. Il padre, in definitiva, è quello che apre al figlio la porta attraverso cui passare per conquistare l’autonomia (e scusa se è poco!). La presenza del padre, nella coppia, ha lo scopo di favorire l’identificazione del bambino sul piano pratico e sessuale (vedi Edipo). Dovrebbe rappresentare, inoltre, la generosità, la forza, il coraggio, la coerenza, nelle quali il bambino trova di che imparare per se stesso. Tra le qualità più importanti non va dimenticata la discrezione. Nell’adolescenza, infatti, è forte la tentazione di rimanere, sia per il figlio maschio che per la femmina, l’elemento predominante in quanto a capacità e seduzione. E’ ovvio che quando i figli avranno le loro prime esperienze amorose il padre dovrà rassegnarsi ad interpretare il ruolo di attore secondario e non più di protagonista: essenziale per la buona riuscita della rappresentazione nel suo insieme ma non più vitale ed insostituibile.
Comprendere l’importanza del ruolo di padre significa dimostrare maturità. Questa non s’inventa ed è necessario, prima di decidere di avere un figlio, che si faccia autocritica su questo argomento. Alcuni rischi, sicuramente seri, incombono sulla testa dei padri non preparati:
1) Il Padre “padrone”: è colui che deve, per convinzione o per tradizione, incarnare il ruolo del dominatore, di colui che organizza e dispone la vita di tutti, che “comanda” più che chiedere, con la pretesa di sapere ciò che è meglio per tutti.
2) Il Padre “amico”: è una variante del precedente ma mascherato sotto una serie di comportamenti volti ad accattivarsi la simpatia del figlio attraverso l’imposizione di hobbies, interessi, ecc. da svolgere insieme. In questo caso, qualsiasi cosa voglia il figlio, deve passare attraverso l’approvazione e la partecipazione del padre che gli “toglie di mano” gli oggetti per manipolarli lui stesso e controllarne l’uso.
3) Il padre “assente”: spaventato dal suo ruolo delega ogni atto alla madre, “fuggendo” dalla casa e rifugiandosi nel lavoro o negli hobbies, in modo da avere meno contatti possibile con la fonte della sua angoscia, cioè il figlio.
4) Il padre “guerriero”: vuole incarnare il ruolo del duro, del macho. Secondo questa visione l’uomo è tale solo se è violento, volgare, prevaricatore. Tutto ciò si traduce in comportamenti poco educativi per il figlio.
5) Il padre “maternizzato”: in questo caso l’insicurezza di essere adeguato al ruolo di padre genera una angoscia tanto grande da indurre, per attenuarne i sintomi, all’imitazione dell’unico modello valido disponibile e cioè la madre. Il rapporto col figlio si fa invischiante ed oppressivo mentre quello con la moglie diviene di competizione ed interferenza.
6) Il padre “infantile”: diviene tale o per gelosia della moglie nei confronti del figlio (che gli ha sottratto l’attenzione della partner) o del figlio nei confronti della moglie (perché lo vorrebbe tutto per se mentre si rende conto che tra madre e figlio esiste un rapporto di esclusività). In entrambi i casi (nel primo per alleanza, nel secondo per “innamoramento”) questi padri tendono ad esclusivizzare il rapporto col figlio. Le figlie, in particolare, sono coartate da un padre geloso che vede in ogni amico un rivale.

I FIGLI: UNICI O MOLTEPLICI?
Si analizza il “problema” del figlio unico come se realmente fosse un problema. Tutti i difetti dell’unicogenito, in realtà, dipendono soltanto ed unicamente dalla maturità dei genitori e dall’adeguatezza delle loro azioni educative. E’ più che legittimo pensare alla facilità con la quale il figlio, se solo, possa incappare in un’affettività dei genitori di marca esclusivista ed iperprotettiva e che per conseguenza possa divenire egoista, viziato o simili. Così come è facile che l’iperprotezione, riportata sul piano fisico, possa generare una tendenza spiccata ad ammalarsi con frequenza maggiore (eccessivi riguardi ed attenzioni ritardano l’acquisizione, da parte dell’organismo, dei meccanismi di autoprotezione e di adattamento all’ambiente). Una coppia di genitori equilibrati, invece, non incorre in questi rischi.
In realtà, come sottolinea Bern., se la coppia è malata di mammismo, anche se avrà più figli li alleverà come tanti figli unici (nel senso deteriore della parola) e la pratica lo dimostra. Inoltre fare un secondo figlio come “compagnia del primo” o, peggio, come elemento di sollievo qualora venisse a mancare il primo, significa mancare di rispetto e sottrarre considerazione ed amore sincero al secondo.
La possibilità di rendere libero un individuo non risiede nel numero di fratelli o sorelle ma nell’abilità dei genitori ad educarlo come tale, consentendogli di socializzare in modo normale ed evitando intrusioni indebite nella sua vita privata.
Considerazioni personali: i figli debbono essere considerati prima di ogni altra cosa degli esseri umani unici, fruitori di diritti. La consapevolezza di ciò che si fa nel metterli al mondo dovrebbe essere cosa scontata. Non si generano figli solo per orgoglio, per vanità, per salvare un matrimonio, per realizzare i propri sogni. Si genera per amore verso l’umanità intesa come corpo unico dal quale ogni individuo trae forza e del quale ogni singolo è parte importante ed insostituibile. La consapevolezza dell’unicità di ogni persona rende il genitore responsabile dell’educazione del proprio figlio non solo per se stesso ma per tutta l’umanità (o comunque per quella parte di umanità che avrà contatti con lui e ne sarà influenzata). L’interazione tra i singoli crea il corpo unico sociale. Ciò che si insegna ai figli è esattamente ciò che attueranno da adulti. Il rispetto, la collaborazione, la ragionevolezza, la solidarietà sono tutto ciò di cui ha bisogno l’umanità per prosperare ed evitare l’autodistruzione.
L’abuso degli strumenti del progresso od il loro uso improprio (televisione, marketing, internet, ecc.) dovrebbero essere evitati insegnando ai propri figli la temperanza nelle azioni ed il controllo delle emozioni e delle voglie. Sapersi arrestare in tempo, saper rinunciare a qualcosa, essere in grado di gestire gli istinti, sono sicuramente “materie” da preparare e da trasmettere alla prole.

Riprendo Bern.
I NONNI
Si escludono dal novero dei nonni educativi le seguenti categorie:
- Gli autoritari: si sentono ancora i genitori dei propri figli (a loro volta genitori) e tendono a comportarsi di conseguenza, imponendo i loro dogmi e le loro indicazioni sull’educazione del nipote.
- Gli insoddisfatti: coloro che non hanno risolto i loro contenziosi con la vita prendendo la vecchiaia come un insulto personale. La perdita di potere, la diminuzione dell’attività o, più semplicemente, la sensazione di impotenza di fronte agli anni che passano, li rendono aspri, incapaci di trasmettere energie positive. Sono alla perenne ricerca di conferme della propria esistenza e della propria importanza usando mezzi che vanno dalla riprovazione al ricatto, all’uso dei malanni come sistema di accentrazione del potere. Il nipote diviene uno dei mezzi a disposizione per dimostrare a se stessi la capacità di influire e di modellare.
- I manager: nonni ancora giovani o, seppure non giovani, ancora potenti ed attivi. La disponibilità è ovviamente minore. Non sono nonni in senso stretto ma sono una controfigura dei genitori condividendo con questi tutte le preoccupazioni del vivere quotidiano. Sono meno distaccati, probabilmente meno saggi, quasi certamente meno disposti all’ascolto ed al racconto.
Secondo Bern. La condizione irrinunciabile per considerare educativo un nonno è che non interferisca con i programmi educativi dei genitori e faccia da tramite fra il passato ed il presente. Il nonno è il genitore dei propri genitori: può dare al nipote il senso della continuità della vita raccontando se stesso da giovane ed il proprio figlio da piccolo; può disporre di una carica di amore temperato dal distacco con la vita attiva che lo rende disincantato, disponibile, paziente. In questo caso anche i “vizi” sono tollerati. Il bambino acquista, dal contatto col nonno, il senso del donare per il gusto di farlo e non per il dovere. L’assenza di rigidità nell’applicazione di regole (sempre che il nonno non interferisca in modo palese con gli intendimenti dei genitori abolendole del tutto) rende più facile, al bambino, l’accettarle.
Mio pensiero: i nonni sono la contropartita permissiva all’intransigenza dei genitori. Ogni volta che il bambino sta col nonno è come se andasse in vacanza: si riposa dai doveri rigidi ed applica una socialità più spontanea e serena, imparando una forma d’amore che, dai genitori (tesi, impegnati, talvolta nervosi) non può osservare. Il genitore è “dentro” al mondo, insieme al figlio; il nonno “sorvola” il mondo e ne ottiene una visione più distante, tranquilla, distaccata. Il genitore è la scienza e la tecnica mentre il nonno è la filosofia e la storia.

COS’E’ EDUCARE
Facile dire: “ex-ducere”. Molto più difficile è capire cosa significa. A parere di Bernardi va distinta la necessità di fornire al bambino delle abilità atte alla conservazione della salute e dell’integrità fisica (non giocare con la corrente elettrica, guardare prima di attraversare la strada, ecc.) nonché della civile convivenza, basata sul rispetto della altrui libertà e sul far rispettare la propria, dalla vera “educazione” che consiste nel lasciare libera di esprimersi la personalità del bambino, il quale può e deve scegliere da solo cosa fare della sua vita di adulto. In pratica se si applicano al campo dell’educazione le metodiche necessarie all’acquisizione delle abilità di autoconservazione (che sono giocoforza piuttosto restrittive e rigide) se ne ottiene un buon animale domestico e non una persona.
Se si opera, invece, la distinzione sopra suggerita, si apre un campo d’azione sicuramente più vasto. Insegnare al bambino a fare la cacca nel vasino o ad allontanarsi dalla pentola d’acqua bollente, comporta azione diretta, proibizione, condizionamento; insegnare al bambino l’onestà ed il rispetto è tutt’altro lavoro. Non si può agire direttamente ma solo ed unicamente attraverso l’esempio. Alla lunga si può anche riuscire a “forgiare” un bambino in tal senso ma se ne ottiene un’obbedienza acritica, avulsa dall’accettazione spontanea di un modo di vita, che sarebbe invece auspicabile.
Osservata da questa angolazione la questione diviene maggiormente comprensibile. Nel campo della conservazione della specie (la sicurezza) l’opportunità di agire col condizionamento e la coercizione è una necessità. Si tratta di norme che prescindono il ragionamento e la logica visto che concernono situazioni che l’uomo condivide con gli animali. Quando si affrontano situazioni tipiche dell’uomo (lo spirito, il rispetto, la generosità, il coraggio delle proprie idee, il buonsenso, la ricerca della verità e della giustizia, la capacità di cambiare idea riconoscendo i propri errori, ecc.) l’ottica diviene assolutamente differente. La necessità, da parte del genitore, di “non fare” (cioè di non costringere il bambino a comportarsi in un certo modo a tutti i costi) deriva dalla consapevolezza che il bambino dovrà essere autonomo nella scelta di ciò che vuole essere. Quasi sempre l’imposizione di regole in questo campo crea individui allineati e conformi a quanto, presuntuosamente, i genitori ritengono giusto e legittimo (impedendo automaticamente la formazione di una coscienza autonoma e peculiare della persona di cui si ha la responsabilità). Alle pagine 145-165 Bernardi compie un’analisi della situazione che mi sembra molto calzante ed illustrativa. Frase chiave di Bernardi: “Per lo sviluppo dell’essere qualcuno non occorre esercitare alcun potere; per insegnare a fare qualcosa invece si”.
Non oziosa l’insistenza su un argomento centrale: l’umiltà del genitore di fronte alla personalità in formazione del proprio bambino. Il rispetto si insegna anche con questo atteggiamento. Alcune convinzioni, che al genitore appaiono le migliori, possono non adattarsi alle esigenze della società in evoluzione. Questo può significare impedire al bambino di formarsi spontaneamente un modo di vivere adeguato alle sue aspirazioni (che sorgeranno in un’epoca situata fuori dal contesto in cui si sono consolidate le convinzioni dei genitori). La notazione appena esposta implica, da parte del genitore, una continua revisione di se stesso alla luce di ciò che il figlio gli insegna della nuova era. Educare diviene, pertanto, un procedimento a doppio senso. Sta al genitore rendersi disponibile ad accettare i nuovi parametri e cercare, insieme al figlio (con la sua collaborazione), un’etica adeguata. Questo significa anche non prendere come una sconfitta il fatto che il figlio decida di intraprendere una strada diversa da quella che il genitore aveva sperato.
Essere allineati comporta limitazione della libertà. Guccini: “E’ facile tornare con le tante, stanche pecore bianche. Scusate, non mi lego a questa schiera: morrò pecora nera”.

Segue con una disamina delle tappe di formazione della personalità in cui distingue il bambino molto piccolo (che non obbedisce perché non ne comprende la ragione, dato che segue il suo istinto di ricerca del piacere) dal bambino di 2-3 anni (che si oppone in quanto si mette e mette gli altri alla prova) dal bambino in età scolare (che incontra un mondo più variato, fatto di altri bambini, di altre necessità, di altri doveri). E’ inutile riassumerlo dato che non si discosta da quanto ho scritto io stesso al proposito.

Sulle punizioni vi sono alcune notazioni sulle quali ho alcune perplessità. Non è chiaro se proponga una giusta “via di mezzo” tra punire o non farlo, oppure se escluda la punizione come atto terapeutico ed educativo. In realtà, credo, egli intende soprattutto escludere quelle punizioni che comportino umiliazione del bambino o che gli diano la sensazione di non essere più amato. Insiste molto sul ruolo educativo dell’esempio. Secondo lui mostrare un certo tipo di comportamento genera, alla lunga e per imitazione, la sua adozione spontanea anche da parte del bambino. La mia domanda allora è la seguente: nel periodo di opposizione alle regole ed in attesa che il bambino acquisisca queste norme, il genitore cosa fa? Tollera urli, capricci, ecc. con olimpica calma senza neanche tentare di modificare questo cattivo comportamento? Bernardi stesso raggiunge la conclusione che un atteggiamento caramelloso, tollerante, dolce ad oltranza porta inevitabilmente al rifiuto di ogni regola proposta. Durezza allora no, ma no anche alla tolleranza. Ecco che si arriva alla mia conclusione: coerenza ed accordo tra i genitori nel consentire e nel proibire le stesse cose, punendo il giusto, senza violenza e senza umiliazione, cercando di far capire al bambino che ogni proibizione ha un senso, adoperando parole semplici, discorsi brevi, figurazioni tali da poter essere comprese. Non osservare ”obbedienza” dal proprio bambino significa semplicemente assistere all’esercizio del suo diritto alla libertà. Anche da adulti ci si conforma ob torto collo a delle regole, ma da bambini, prima che queste vengano assorbite nel loro vero senso e nella loro utilità, ogni limitazione porta scompenso. Capire questa semplice notazione è utile per comprendere la ragione della disobbedienza e per darle un altro nome: espressione del dissenso. Credo che molti genitori non diano il giusto valore alla ribellione ed al non allineamento. Un bambino troppo conforme e troppo pronto è probabilmente gradevole da mostrare in giro ma non è molto differente da un essere ammaestrato. Si può giungere senz’altro a questo risultato ma il prezzo è l’ottenimento di un individuo senza una propria personalità che non sa esprimere se stesso se non all’ombra di qualcun altro che si incarichi di dettare regole e fornire direttive. La fantasia, l’autogestione, la capacità di agire in proprio ne scapiteranno grandemente nella sua vita da adulto.

La punizione, vista da questa angolazione, in realtà ha poco spazio di applicazione. Sicuramente serve ma solo a patto che non rappresenti l’esercizio di un potere contro il quale il bambino è inerme. Il mezzo correttivo, sia esso fisico che non (la sberla o il sequestro di un gioco) ha la stessa funzione del freno dell’automobile: se usato senza criterio e senza necessità o troppo spesso impedisce il viaggio ma se non usato mai può divenire motivo di danno anche molto grave.

Il vivere in società comporta, da parte del bambino, l’acquisizione di “norme” di convivenza. Dato che tali norme vanno spesso contro il comodo del bambino, è normale attendersi che vi sia resistenza nei loro confronti. Del resto, essendo irrinunciabili, costringono coloro che hanno responsabilità educative ad adottare metodiche (variabili a seconda del soggetto e della sua personalità) utili a che tali norme vengano disattese il meno possibile. Ritengo, personalmente, che se si dimostra rispetto ed amore nell’educare, ogni metodica sia corretta. Il genitore, o chi per lui, dovrebbe sempre ripensare a se stesso da piccolo, nella stessa situazione (Bettelheim) e dovrebbe essere tanto umile da ripercorrere il proprio tracciato educativo per valutare se le convinzioni che ne sono derivate siano le più adeguate per il proprio bambino. Ritengo che questa operazione sia la più utile per evitare al massimo gli errori (ma, ovviamente, senza aspettarsi il nascere di regole perfette ed universali).
Per il bambino l’avere a disposizione dei termini di paragone e dei cardini fissi su cui far ruotare la propria inesperienza, diviene vitale. L’esempio e la coerenza (anche se misti a qualche “punizione”) sono ingredienti irrinunciabili per la progressione di un processo educativo.

L'apprendimento: interpretazioni psicologiche (W. Hill)

In psicologia l’accezione del termine apprendimento è più ampia di quello inteso nel linguaggio comune. Ogni cosa, buona o cattiva, vera o falsa, può essere appresa in maniera conscia o inconscia e non necessariamente finalizzata ad un’azione pratica.
Es.: il ricordo di un week-end, guidare l’automobile, credere nella democrazia, disprezzare il capufficio, sono tutte conseguenze dell’apprendimento.
L’APPRENDIMENTO NELLA SCUOLA: è influenzato dall’ambiente, dal profilo psicologico dell’insegnante, dalle compagnie di classe. Le modificazioni non riguardano solo l’acquisizione di abilità specifiche ma anche e soprattutto le emozioni, il comportamento sociale, ecc.
La percezione dell’ambiente è soggettiva (più o meno incoraggiante), mentre la personalità dell’insegnante (più o meno incline all’incoraggiamento) influisce in maniera più marcata sulla motivazione. I compagni fungono da rinforzo o da fattore inibitorio. La complessità che deriva dall’azione contemporanea di tanti fattori rende ragione delle difficoltà di studio.
Gli elementi comuni sono:
1) apprendimento
2) motivazione
3) successo od insuccesso
Le differenze tra i vari tipi di apprendimento sono determinate da:
1) memorizzazione
2) abilità specifica (ad esempio motoria nello sport)
3) intuizione
A questi elementi debbono essere aggiunti:
1) tentativi ed errori
2) suggerimenti
3) apprendimento mnemonico-meccanico
Negli esperimenti con gli animali (ad esempio il piccione che deve beccare un pulsante di un determinato colore per ottenere il grano) la frequenza con la quale il piccione becca prima dell’inizio dell’esperimento si dice “frequenza operativa”; L’introduzione dell’elemento gratificante nell’esp. si dice “rinforzo”; se il grano non viene fornito dopo tutte le beccate giuste ma solo alcune di esse si ottiene l’”estinzione”, cioè la diminuzione della frequenza delle beccate giuste; se dopo un certo tempo di interruzione dell’esp. si riprende la somministrazione di grano alle beccate giuste, si osserverà un aumento delle beccate stesse, maggiore a quello precedente la sospensione (“recupero spontaneo”); se si cambia il colore del pulsante giusto ed il piccione continua a beccarlo si è ottenuta la “generalizzazione”, cioè la capacità del soggetto a reagire a stimoli diversi da quello usato nell’addestramento. Se i pulsanti che forniscono grano sono due con differente frequenza di rinforzo, il piccione beccherà più frequentemente quello da cui otterrà più grano (“discriminazione”).
Questo esperimento sull’apprendimento può essere applicato anche all’uomo ed in situazioni più complesse.
La frequenza operativa è data dalla intrinseca capacità del soggetto ad imparare; il rinforzo è dato dalle lodi e dalle approvazioni, ecc.
Un ritardo nel rinforzo si può convertire in una esecuzione più scadente.
Riflessi condizionati: si ottiene una risposta associando in modo coerente una risposta sempre uguale ad uno stimolo preciso. L’apprendimento consisterà nel’osservazione di quella determinata risposta ogni volta che lo stimolo si presenta.
Esempio: l’occhio si difende da un getto d’aria mediante l’ammiccamento ma non fa altrettanto quando, ad esempio, varia l’intensità della luce ambientale. Si può condizionare l’occhio ad ammiccare quando varia l’intensità della luce. In che modo? Si investe l’occhio con un getto d’aria ogni volta che l’intensità della luce varia: dopo alcune sedute di apprendimento, l’occhio ammiccherà anche se alla variazione di luce non seguirà il getto d’aria. La capacità dell’occhio di ammiccare al getto d’aria si dice “riflesso incondizionato”; il getto d’aria è denominato “stimolo incondizionato”; la variazione di luce è denominata “stimolo condizionato” mentre l’ammiccamento alla variazione di luce è detto “riflesso condizionato”. All’apprendimento condizionato è possibile applicare tutti i princìpi descritti prima (rinforzo, estinzione, ecc.).
In campo sperimentale si definisce variabile DIPENDENTE quella situazione su cui lo sperimentatore compie una previsione (ad esempio il periodo di oscillazione di un pendolo in diverse condizioni esterne ad esso), mentre si denominano variabili INDIPENDENTI quelle di cui lo sperimentatore si serve per compiere le sue osservazioni (ad esempio la forza con cui viene spinto il pendolo, l’umidità dell’aria, l’applicazione di forze esterne come la densità del mezzo in cui il pendolo oscilla, ecc.). La modificazione delle variabili indipendenti e l’osservazione delle reazioni della variabile dipendente, costituiscono l’ESPERIMENTO.
Nello stabilire delle LEGGI è necessario compiere un processo di  ASTRAZIONE, vale a dire che in una serie di risposte si ricerca un elemento comune che le caratterizza: ciò significa estrarre dai risultati soltanto quelle evidenze che sono accettabili universalmente e non soggette ad interpretazioni personali. E’, in pratica, quello che fece Platone quando, disinteressandosi delle differenze tra i diversi cavalli, propose il concetto di “cavallinità” che li includeva tutti possedendo le caratteristiche fondamentali che distinguono il cavallo da ogni altro animale od oggetto.
La TEORIA consiste , invece, nella interpretazione sistematica di un determinato campo della conoscenza. La verifica della veridicità di una teoria sta nella sperimentazione e nella riproducibilità dei risultati (il che configura una legge) ma, anche in assenza di verifica sperimentale, la teoria costituisce un tentativo di rispondere a quesiti posti dall’osservazione di un determinato fenomeno.
Nel campo dell’apprendimento una teoria ha tre funzioni:
1) rappresenta il punto di vista del ricercatore
2) è il tentativo di raccogliere in un ambito abbastanza ristretto, una grande quantità di leggi ricavate sperimentalmente, in modo da dar loro un significato organico e sistematico
3) è un tentativo creativo di spiegare il perché certi fenomeni tendano a verificarsi con alta frequenza e se vi sono collegamenti causali tra vari fenomeni apparentemente slegati fra loro.
Tra variabili indipendenti (stimolo) e dipendenti (risposta), sono importanti per la loro funzione le VARIABILI INTERMEDIE che influenzano la risposta e sono state, nel caso dell’uomo, identificate con la struttura caratteriale, con le abitudini, con le opinioni, con i moventi.
Nello studio dei fenomeni legati all’apprendimento si riconoscono storicamente due scuole:
a) ASSOCIAZIONISMO:  l’apprendimento deriverebbe da un fenomeno di associazione tra stimoli e risposte. Questa “associazione” di eventi prende il nome di abitudine, di legame stimolo-risposta o di riflesso condizionato.
b)  COGNITIVISMO: l’apprendimento deriverebbe da una serie di modifiche del comportamento determinate, nell’individuo, dalle cognizioni che egli acquista attraverso le opinioni, le percezioni e gli atteggiamenti, dall’ambiente in cui vive ed agisce. Secondo questa teoria l’elemento da studiare è la variazione del campo delle conoscenze determinato dall’esperienza.

Teorie della contiguità nella tradizione associazionista

WATSON (comportamentismo)
Studiò semplicemente il comportamento disinteressandosi della coscienza umana. Secondo il suo sentire doveva essere studiato solo ciò che era oggettivamente rilevabile mediante sperimentazione ed osservazione. La coscienza appartiene al regno della fantasia, se si segue questo principio.
L’unica cosa osservabile e studiabile è, quindi, il comporamento.
Respinse anche l’idea di analizzare la motivazione come atto seguente all'’stinto.
Secondo Watson il comportamento umano è una serie di riflessi condizionati; questo atteggiamento gli fece escludere le qualità innate. Con opportuni condizionamenti sarebbe praticamente possibile far imparare all’uomo qualsiasi cosa. Questo atteggiamento interpretativo fu largamente inserito nella filosofia americana che recita il motto ”le possibilità di successo sono uguali per tutti”.
 

Secondo Watson si nasce con certi nessi stimolo-risposta detti riflessi (tosse, sternuto, riflesso patellare, ecc.); il processo di condizionamento ne può stabilire di infiniti variando lo stimolo che provoca una determinata risposta e provocando, quindi, reazioni conosciute a seguito di stimoli differenti. Inoltre una sequenza di stimoli-riflesso assortita in modo differente per le differenti situazioni, darebbe la possibilità di apprendere modi d’azione configurati a situazioni anche complesse. In pratica: la somma di tanti riflessi semplici porterebbe ad un comportamento complesso.
Per spiegare il funzionamento del processo, Watson enunciò due princìpi:
1) Principio di frequenza:  quanto più spesso ad uno stimolo segue una certa risposta, tanto più probabilmente a quello stimolo seguirà la stessa risposta.
2) Principio di prossimità temporale: quanto più breve è la distanza temporale tra stimolo e risposta, tanto più probabilmente quella risposta sarà ripetuta alle successive applicazioni dello stesso stimolo.
Il condizionamento avviene quindi dopo una serie di tentativi ed errori: nella quantità di tentativi effettuati ve ne saranno alcuni che avranno come risposta, per frequenza e per prossimità temporale, il consolidamento dell’azione stimolante attraverso l’osservazione di risultati omogenei. Questo, alla fine, porterà all’apprendimento di un certo comportamento al fine di ottenere quel determinato risultato.
Watson riconosce soltanto tre emozioni innate: Paura, collera ed amore ma le inquadra in modo da considerarle essere stesse dei riflessi (sulla base del fatto che insorgono a seguito di certe situazioni e non altre in modo omogeneo). Secondo Watson queste emozioni non sono altro che forme di movimento, dato che ad esse si accompagnano modificazioni nella funzione degli organi alle quali seguono azioni (rossore, accelerazioni del battito, aumento del tono muscolare, ecc.).
Fu un lavoro utile a spiegare i comportamenti semplici  ma sicuramente lacunoso per ciò che attiene i comportamenti complessi.

Guthrie
“Ogni volta che si ripresenta una combinazione di stimoli che ha accompagnato un determinato movimento, essa tenderà ad essere seguita da quel movimento”
In pratica: se in una certa situazione si fa qualcosa, quando quella situazione si ripresenterà è probabile che si verifichi di nuovo l’azione osservata. Questa teoria non dice nulla sugli stimoli incondizionati: a questo autore interessa solo l’associazione stimolo-risposta come spiegazione dell’apprendimento.
Vari tentativi porteranno un soggetto ad “apprendere” la soluzione di un problema o comunque ad arrivare a soddisfare una esigenza (p.es. anche rinunciando ad agire per l’impossibilità di trovare una soluzione): in ogni caso, quando quel problema si ripresenterà la risposta tenderà ad essere sempre la stessa (anche rinunciare può essere una risposta). Valgono gli stessi principi di frequenza e contiguità temporale, come in Watson, ma per Guthrie (contrariamente al primo) il movimento che si produce a seguito di un determinato stimolo rimane fisso ed immutabile per l’esperienza che lo ha condizionato: ulteriori esercizi non aggiungono nulla all’intensità della connessione che si è stabilita. Il movimento a cui si riferisce Guthrie non riguarda azioni complesse ma infinitesimi movimenti muscolari di risposta ad infinitesimi stimoli: è la loro somma a determinare un atto complesso.
Il progresso nell’abilità complessa è quindi graduale, mentre l’apprendimento di ogni minimo segmento di tale azione è istantaneo.
Inoltre anche per Guthrie è indifferente che vi sia rinforzo: secondo la sua teoria l’ultima cosa che si fa è quella che invariabilmente si ripeterà quando la situazione stimolante si presenterà nuovamente. I comportamenti efficaci e quelli inefficaci possono essere appresi e ritenuti allo stesso modo. Gli errori possono ripetersi più volte così come i successi ma non è importante. Quello che si vuol dire è che si impara dall'esperienza. Alla verifica sperimentale queste teorie non hanno avuto riscontro: il rinforzo è risultato essere un elemento determinante nell’apprendimento di ogni azione, semplice o complessa.

Teorie del rinforzo nella tradizione associazionista

Thorndike
Fu uno sperimentatore attivo del comportamento e dell’apprendimento. Il lavoro di laboratorio fu da lui svolto utilizzando gatti ma non fu mai applicato sull’uomo.
Il processo di apprendimento, secondo le sue osservazioni, progredisce per tentativi ed errori ma progredisce molto lentamente poiché procede per graduale impressione nella memoria della relazione stimolo-risposta. Non istinto né ragione ma graduale apprendimento della risposta corretta. Egli fu un teorico del rinforzo. Trasse, dalle sperimentazioni, alcune leggi:
1) Legge dell’esercizio: i legami stimolo-risposta vengono rafforzati semplicemente dalle risposte che si verificano in presenza degli stimoli
2) Legge dell’effetto: se uno stimolo è seguito da una risposta a sua volta seguita o rappresentata essa stessa da una gratificazione, la connessione si consolida mentre si indebolisce se a seguire la risposta è un elemento di fastidio. In realtà il fastidio agisce come incentivo a cercare risposte alternative a quel determinato stimolo, allo scopo di ottenere una gratificazione.
In pratica una punizione a seguito di un’azione scorretta squilibra la fissità della risposta inducendo un comportamento variabile dal quale deriva una possibilità di reinnescare il processo per tentativi ed errori fino a trovare una risposta gratificante.
Fu il primo a teorizzare il rinforzo come elemento determinante nell’apprendimento.

Skinner
Individua due differenti tipi di apprendimento:
1) Comportamento rispondente o di risposta: automatismo tra stimolo e risposta detto riflesso. Si posseggono alcuni riflessi innati; altri si acquisiscono mediante condizionamento.
2) Comportamento operativo: il comportamento operativo non si verifica in quanto risposta fissa a determinati stimoli e/o è finalizzato ad essi ma agisce di per se sull’ambiente. Può essere influenzato da stimoli ma solo parzialmente ed in modo variabile. Ad esempio afferrare il cibo non necessariamente nasce dalla semplice vista degli alimenti ma anche da convenzioni sociali, da fame o altro.
Il condizionamento operativo  nasce da un rinforzo dato da una ricompensa e tenderà a ripetersi nelle stesse condizioni.
Denomina rinforzi positivi quelli rappresentati dal sorgere di una soddisfazione mentre indica come rinforzi negativi quelli rappresentati dalla cessazione di uno stato di disagio a seguito di una certa azione.
Secondo Skinner la punizione non riduce necessariamente la frequenza di risposte non corrette ad un determinato stimolo. Quando questo accade le ragioni possono essere le seguenti:
a) la punizione può agire sul piano emotivo determinando una reazione che, dal punto di vista dell’attuazione, è incompatibile con l’azione che si vuole eliminare. Es. sgridando un bambino che mangia un dolce, se ne può provocare il pianto. Siccome è impossibile piangere e mangiare contemporaneamente, egli smetterà di mangiare il dolce ma questo non significa che smetterà per sempre, anzi…
b) un effetto più duraturo della punizione si può ottenere abbinando uno stimolo neutro ad uno stimolo sgradevole che produce una reazione. Punizione più stimolo neutro danno un effetto condizionante allo stimolo neutro per cui ad una successiva occasione di errore basterà somministrare lo stimolo neutro per ottenere la cessazione del comportamento errato.
c) Rafforzamento negativo fondato sugli stimoli sgradevoli che la punizione determina. In pratica il bambino, per veder cessare il disagio creato dalla punizione, smetterà di compiere l’azione proibita.
Tutti questi effetti della punizione non sono duraturi nel tempo e quindi richiedono una reiterazione delle punizioni in quanto non si elimina del tutto la risposta errata ma se ne può solo interrompere l’attuazione ogni volta che si ripresenta.

Il rafforzamento di una determinata risposta in presenza di un certo stimolo ed il non rafforzamento in presenza di uno stimolo diverso fa si che il 

secondo stimolo si estingua. Il soggetto opera quindi una discriminazione secondo la quale impara a rispondere al primo stimolo ed impara a non rispondere al secondo. La tendenza a dare questa risposta al comparire dello stimolo rinforzato, però, non è automatica al comparire dello stimolo stesso. Ad esempio un piccione che abbia imparato a beccare un pulsante di un certo colore per ottenere cibo, lo farà finchè avrà appetito, poi smetterà. Per il comportamento operativo, quindi, non valgono le regole dell’automatismo.
Skinner è un attento osservatore delle risposte, devolvendo agli stimoli il semplice ruolo di elementi che influenzano il prodursi di risposte operative insieme a condizioni ambientali che possono assortirsi in modo differente agendo sulla risposta.
Attenzione è stata posta da Skinner, nella sperimentazione, alla disposizione dei rinforzi, lasciando libertà al soggetto di rispondere più o meno rapidamente. Il rinforzo è costante (continuato) al verificarsi della risposta voluta nella prima fase dell’esperimento; una volta instaurato l’addestramento, il rinforzo diviene intermittente, cioè segue soltanto alcune delle risposte. La frequenza di somministrazione dei rinforzi intermittenti può essere stabilita in base ad un certo ritmo (disposizione a rapporto) o a tempo (disposizione ad intervallo) e tale frequenza può essere fissa o variabile.
Rapporto fisso: il rinf. Si ottiene dopo un certo numero di risposte
Rapporto variabile: il rinf. Si ottiene dopo un numero variabile di risposte che però rispetta una media di tutte le risposte. Ad esempio se il rapporto è in base 5, il numero del rapporto è la media delle frequenze dei rinforzi (che possono essere dopo 2 o dopo 10 risposte ma la cui media è 5).
Intervallo fisso: il rinf. Avviene dopo un periodo di tempo prefissato ed uguale tra un rinforzo e l’altro
Intervallo variabile: il tempo tra i rinforzi è variabile ma rispetta una media (come per il rapporto variabile).
Gli schemi a rapport danno una media di risposte positive maggiore di quelli ad intervallo.
Gli schemi fissi determinano risposte via via più rapide ed efficienti .
La continua ricezione di rinforzi, però, da un numero minore di risposte per ogni rinforzo, rispetto agli schemi intemittenti. Inoltre negli schemi intermittenti, quando il rinforzo cessa del tutto, c’è una tendenza molto più lenta all’estinzione.
Lo schema a rapporto variabile si dimostra il più efficace.
Il  condizionamento progressivo (SHAPING) consiste nel modellamento di un comportamento complesso mediante scomposizione del comportamento stesso in una serie di tappe intermedie dopo ognuna delle quali si fornisce un rinforzo. Si passa da una tappa alla successiva non appena si sia ottenuta una risposta corretta a tutte le precedenti. In questo modo Skinner è riuscito a far eseguire a dei topi una sequenza di azioni estremamente complessa.
L’importanza del lavoro di Skinner risiede nella dimostrazione del potere dei rinforzi nel modellare un comportamento. Sull’uomo può avvenire altrettanto efficacemente e studi condotti ad hoc, mediante condizionamento verbale (ad ogni risposta buona l’interrogante faceva semplici cenni o versi di approvazione apparentemente casuali) ne hanno dimostrato la veridicità.
Fa parte dello Shaping anche la superstizione (gatto nero seguito un certo numero di volte da disgrazie = gatto nero jettatore).

Miller
Il suo sistema non differisce di molto da quello di Skinner se non per la terminologia e per le tecniche sperimentali. Fu essenzialmente un teorico.
Nell’apprendimento egli riconosce quattro elementi:
1) Impulso: forte stimolo interno od esterno (ambientale) che spinge il soggetto a ricercare una risposta di adattamento. E’ un elemento che mette l’organismo in attività fino a che non si ottiene la risposta
2) Suggerimento: insieme degli stimoli che condizionano la natura della risposta e ne stimolano la ricerca (ad esempèio se ho fame posso soddisfarla, a seconda delle condizioni ambientali e delle contingenze, cucinando o andando al ristorante o comprando un panino, a seconda delle circostanze in cui mi trovo).
3) Risposta: soddisfacimento dell’esigenza imposta dall’impulso sotto forma di una riduzione dello stesso (che si traduce anche in una riduzione dell’attività: ad esempio se ho fame ricerco attivamente il cibo fino a che non l’ho trovato. Una volta soddisfatta questa necessità cessa la mia attività di ricerca del cibo)
4) Ricompensa: cessazione dell’impulso (e quindi dell’attività) a seguito dell’ottenimento di una risposta efficace.
Questa sequenza spiegherebbe soltanto la motivazione e non l’apprendimento se non che, secondo Miller, la riduzione della forza di un impulso compie un’azione di rinforzo su qualsiasi risposta che tenda ad attenuare l’impulso stesso. Quella risposta rinforzata tenderà ad essere ripetuta quando si ripresenterà la stessa situazione di impulso, quindi verrà acquisita.
L’operazione fondamentale, nell’apprendimento, sarà quella di dare risposte tese a ridurre un impulso.
Nelle situazioni nuove si avrà una gamma di risposte diverse, una delle quali otterrà la riduzione dell’impulso e verrà perciò acquisita come quella adatta alla circostanza.
Il concetto di attenuazione dell’impulso si avvicina a quello che, per Skinner, era il rinforzo negativo (la cessazione di un disagio). L’efficacia del rinforzo, quando si ripresenta una determinata situazione che ha determinato un apprendimento, dipende dal grado di forza dell’impulso nella circostanza in esame: ad esempio se ho imparato a rispondere col mangiare allo stimolo della fame, la potenza con cui rispoderò dipenderà dalla fame che avrò in una successiva occasione e, di conseguenza, il rinforzo (il cibo) sarà tanto più potente quanto più appetito avrò. Questo schema viene denominato, da Miller, SCHEMA DI CONSERVAZIONE.
Per il soddisfacimento di un impulso l’organismo, infine, metterà in atto tutta una serie di modificazioni indotte dall’attività che l’impulso avvia (battito cardiaco, attività muscolare, ecc.) che, nel loro insieme, prendono il nome di ECCITAZIONE.
L’apprendimento umano funziona anche con l’imitazione per cui, in situazioni nuove, le prove che vengono effettuate per l’ottenimento di una risposta sono state già osservate in altri soggetti a cui hanno giovato. Secondo Miller la tendenza all’imitazione viene anch’essa appresa. La tendenza è quella di imitare coloro che, nelle loro azioni, hanno raggiunto (o si presume abbiano raggiunto) risultati migliori.


Le interpretazioni COGNITIVE dell’apprendimento

Wertheimer, insieme a Kohler e Koffka, criticò la tendenza degli Psicologi americani a scindere un fenomeno nelle sue componenti semplici per spiegarne i meccanismi. Egli rivolse la sua attenzione ai fenomeni così come appaiono all’osservatore; in pratica, più che alla sostanza, rivolse l’attenzione alla FORMA dei fenomeni. In tedesco la parola Forma (o modello o configurazione) si traduce in GESTALT. Da questa teoria prese l’avvio la Psicologia della Gestalt o Psicologia della forma.
Le forme emergono su un piano neutro sul quale poggiano (sfondo); in ogni fenomeno di percezione la figura (centro dell’attenzione) spicca sullo sfondo, del quale quasi non ci si accorge a meno di non fissarvi l’attenzione: in quel caso si invertono le parti e la precedente figura diviene sfondo mentre lo sfondo precedente diviene figura. Questo significa anche che ciò che appare figura in un momento può non esserlo in un altro momento.
L’interesse primario fu volto alla percezione per cui la domanda fondamentale non è il “cosa ha imparato” ma il “come ha percepito la situazione”. Nel sistema mnemonico dell’uomo non vi è un insieme di singoli elementi che, nelle varie occasioni, si assortiscono per dare una risposta, ma delle gestalten. Secondo questo nuovo modo di vedere, l’apprendimento non consiste nel sostituire vecchie gestalt con nuove forme ma nel TRASFORMARE, MEDIANTE L’ESPERIENZA, LE VECCHIE GESTALT IN ALTRE Più ADEGUATE. Non si elimina tutto di volta in volta, ma lo si adatta alle differenti situazioni. Questa trasformazione può avvenire anche con la riflessione, col passare del tempo.

L’apporto di maggior peso dato alla gestalt è quello dello studio dell’INTUIZIONE.
L’apprendimento compare spesso all’improvviso, accompagnato dalla sensazione di aver compreso la situazione nel suo complesso. Quando avviene un tipo di apprendimento di questo genere, si attenua fortemente la tendenza alla dimenticanza ed il complesso di atti che lo accompagnano verrà applicato facilmente alle situazioni nuove.
Kohler compì ampi esperimenti sulle scimmie e notò che la soluzione dei problemi non avveniva necessariamente dopo un periodo di tentativi ed errori ma improvvisamente e dopo un certo tempo di inattività. Ne dedusse che il soggetto dell’intuizione riesce, all’improvviso, a riorganizzare mentalmente tutti i parametri del problema e ad avere una comprensione delle relazioni logiche o la percezione delle connessioni tra mezzi e fini. Si tratta di un meccanismo di percezione “ristrutturata” che consente di vedere le cose da altri punti di vista in modo da poterle connettere tra loro in modi differenti e nuovi, finalizzati alla soluzione di un problema. Le scimmie di Kohler, all’improvviso, vedevano le cassette non più come oggetti da lanciare in aria ma come supporti che, sovrapposti, potevano farle arrivare alla banana appesa.
In quest’ottica l’apprendimento per tentativi ed errori può essere interpretato come una sequenza di piccole e parziali intuizioni.
Le leggi della Gestaltica
1) Legge della prossimità:  viene applicata alla percezione e riguarda il modo in cui gli elementi tendono a raggrupparsi a seconda della loro disposizione spaziale, seguendo in CRITERIO DI VICINANZA. Forme vicine tra loro tenderanno ad essere percepite come parte di un intero.
2) Legge della forma chiusa: le superfici chiuse formano più facilmente delle unità. Porre un certo numero di parti in relazione reciproca tende a semplificare un problema e quindi equivale a quello che, nella teoria associazionistica, è il rinforzo. Le percezioni, col tempo tendono ad assumere forme chiuse, ioè tendono alla circoscrizione di molti elementi gestaltici in un insieme coerente. Le forme buone (efficaci) tendono a formarsi col tempo e sono semplici e regolari.
Anche in caso di dimenticanza il soggetto tende spontaneamente a riprodurre gli elementi ancora a disposizione in una forma che sia la più semplice e lineare possibile.
Secondo Wertheimer l’educazione dovrebbe porsi come intento primario quello di abituare alla percezione di forme unitarie cioè del problema come un tutto organico e dei motivi per cui certi mezzi sono più adatti a conseguire un certo fine.

Lewin
Si interessò della motivazione, della personalità e della psicologia sociale.
Desideri ed obiettivi non sono uguali per tutti ma variano a seconda della personalità di chi li prova.
Egli introdusse il concetto di SPAZIO VITALE che consiste nell’insieme composto da:
- lui stesso
- l’obiettivo che cerca di raggiungere
- gli elementi favorenti (sia fisici e reali che mentali ed immaginari)
- gli elementi che lo contrastano (fisici o immaginari) nel raggiungimento della meta.
Se una persona “immagina” ostacoli inesistenti, questi ostacoli diverranno, per lui, reali; se esistono nella realtà condizioni che il soggetto non percepisce, quelle condizioni non esistono per lui.
Tutto ciò che il soggetto vuole è dotato di VALENZA POSITIVA; ciò che vuole evitare è a VALENZA NEGATIVA.
Un VETTORE costituisce la forza con la quale si agisce in una determinata direzione per ottenere un target e la sua lunghezza ne esprime l’entità numerica. Il vettore punta verso le valenze positive e si allontana dalle negative. Dal vettore deriva il concetto di TENSIONE (da “tendere verso..”): se il vettore punta nella direzione di un obiettivo positivo vi sarà tensione verso quella meta.
Le teorie di Lewin non spiegano molti elementi dell’apprendimento e soprattutto non forniscono elementi di previsione dell’apprendimento stesso.

Tolman
Tentò una fusione tra associazionismo e cognitivismo impegnandosi ad elaborare il COMPORTAMENTISMO INTENZIONALE.
Egli ritenne che il raggiungimento di un obiettivo fosse determinato dalle condizioni circostanti il soggetto che influenza il comportamento. In pratica il soggetti può adottare, per rispondere ad una determinata esigenza, vari comportamenti a seconda delle circostanze. Il pratica, quindi, il comportamentismo intenzionale studia il comportamento in quanto esso si organizza intorno a determinati obiettivi. Un unico comportamento complesso può essere scisso in una serie di COMPORTAMENTI MOLARI (unità di azione ampie la cui somma ed il cui assortimento danno origine ad una serie di comportamenti complessi. Ad es: andare a lavoro, preparare il pranzo, andare in automobile, ecc.) che a loro volta possono essere scissi in miriadi di COMPORTAMENTI MOLECOLARI (i singoli movimenti dei vari muscoli che determinano le azioni). Ogni fenomeno che si frappone fra stimolo e soddisfazione, viene denominata variabile intermedia. Le variabili intermedie sono date dalle “conoscenze” e dalle cognizioni che rappresentano gruppi di azioni preformate sotto forma di comportamenti molari che possono essere usati indifferentemente per l'’ttenimento di obiettivi anche completamente diversi. Ad esempio guidare l’automobile è un comportamento frutto di apprendimento ma può essere utilizzato per ottenere diversi scopi: viaggio di piacere, arrivare al posto di lavoro, accompagnare a scuola il bambino, ecc.
Ogni apprendimento che non viene immediatamente utilizzato per un fine ma solo quando è parte di un complesso di altri comportamenti appresi che, assortiti, danno una ricompensa, viene denominato COMPORTAMENTO LATENTE (ad esempio guidare l’auto mi serve se devo spostarmi: quando avrò necessità di attuarlo ne sarò capace perché già ne conosco i metodi).
Una volta esplorata una situazione e vissuta un’esperienza l’individuo è in possesso del TRACCIATO CONOSCITIVO di quell’esperienza; in una situazione analoga egli saprà orientarsi in modo più efficace ad esempio cercando scorciatoie.
Il SEGNALE GESTALT è ciò che l’individuo si aspetta riguardo alla natura dei fenomeni e dei mezzi adatti per raggiungere determinati scopi.
Riconosce a Lewin il valore dei vettori quali mezzi per quantificare una spinta ma li distingue in due tipi:
1) Vettori d’esecuzione: sono quelli fattuali, cioè quelli che esprimono l’energia effettivamente impiegata per raggiungere uno scopo
2) Vettori di identificazione: sono quelli che portano l’individuo ad OSSERVARE le cose per cercare una soluzione o per semplice curiosità.
Per Tolman esistono sei diversi tipi di apprendimento:
1) Formazione di cariche psichiche (CATEXI):  in presenza di un determinato impulso esprime la tendenza a ricercare certi obiettivi piuttosto che altri.. Ogni volta che il raggiungimento di un obiettivo soddisfa un determinato impulso, si forma una catexi di questa domanda verso quell’impulso.
2) Idee di equivalenza: simili ai rinforzi condizionati di Skinner. In pratica , ad esempio, si fa capire ad un bambino che il premio di una moneta equivale alla stima del genitore ed al suo amore.
3) Attese del campo: risulta dalle idee che il soggetto si forma sul mondo e sul rapporto di causalità tra le cose.
4) Modi cognitivi del campo: predisposizioni ad apprendere certe cose più facilmente di altre. In parte hanno natura congenita, in parte sono anch’essi acquisiti.
5) Discriminazioni fra gli impulsi: la capacità di distinguere impulsi di differente natura che richiedono risposte differenti (ad esempio la differenza tra la fame e la sete).
6) Modelli motori: l’abilità muscolare dell’individuo a compiere le azioni necessarie ad ottenere una risposta.
Le variabili a cui fa riferimento Tolman per completare la sua teoria sono Heredity (eredità), Age (età), Training (addestramento) ed Endocrine (endocrino), riunite nell’acrostico H.A.T.E. L’ultimo fattore (endocrno) esprime le condizioni cliniche del soggetto che si trova ad affrontare una situazione (attivazione ormonale e d’organo che consente l’azione).
La teoria Associazionistica di Hull
I punti di partenza per le dimostrazioni vengono, da Hull, denominate POSTULATI. I postulati non sono da dimostrare ma devono venire accettati in quanto tali.
Dai postulati, per via logica, possono essere derivati, teoremi che non sono altro che una combinazione di postulati. Per valutare la veridicità dei postulati egli parte dai teoremi: se questi sono veri e sperimentabili, debbono essere veri anche i postulati che ne sono alla base.
Questa metodica, però, determina la possibilità che da postulati falsi discendano teoremi veri, anche se è un’eventualità non frequente.
I postulati fondamentali di Hull
Riconosceva, nell’apprendimento, l’azione di 4 stadi:
- Variabili indipendenti  (quelle manipolabili dallo sperimentatore per valutare le risposte al variare dello stimolo) che egli individua in stimoli dolorosi e/o di tipo conservativo (fame, sete, sesso, ecc.)
- Variabili derivate dall’impulso globale dell’organismo (risposta dell’organismo a richieste impellenti per il mantenimento della vita)
- Variabili intermedie: forza dell’abitudine, impulso, motivazione incentiva, potenziale d’eccitazione
- Variabili dipendenti: ampiezza della risposta, velocità di esecuzione, resistenza alla estinzione
DESCRIZIONE:
1) Forza dell’abitudine: si riferisce all’intensità del legame tra uno o più suggerimenti (le contingenze ambientali) e la risposta
2) Impulso: si riferisce all’attività generata nell’organismo dallo stato di bisogno; la sua attenuazione corrisponde alla ricompensa. Ogni impulso genera uno stimolo.
3) Motivazione incentiva: il livello di prestazione aumenta con l’aumentare dell’entità della ricompensa. Non è in grado di modificare la forza dell’abitudine.
4) Potenziale di eccitazione: è la tendenza complessiva dell’organismo a dare una risposta sotto stimolo ed è rappresentata dalla somma di impulso, forza dell’abitudine e motivazione incentiva.
I corollari della teoria di Hull
1) SOGLIA: rappresenta il valore minimo di potenziale d’eccitazione a seguito del quale si ottiene una risposta
2) OSCILLAZIONE: il valore del potenziale di eccitazione è oscillante al di sopra e al di sotto di un valore medio. L’imprevedibilità delle risposte dipende dal punto in cui si trova in quel momento il potenziale di eccitazione: se è al di sotto della soglia occorreranno più reiterazioni dello stimolo, se è al di sopra la risposta si verificherà più rapidamente. L’oscillazione implica anche che non sempre, alla presentazione di uno stesso stimolo, si otterrà immancabilmente la risposta.
 

3) INIBIZIONE REATTIVA: è la tendenza a non ripetere una risposta che si è appena effettuata e tale tendenza è direttamente proporzionale allo sforzo che è stato richiesto all’organismo per arrivare al risultato. Equivale, grossomodo, al concetto di fatica. Per attenuare questo effetto Hull ha notato che è utile distribuire l’esercizio in brevi periodi separati da brevi pause.
4) RINFORZO SECONDARIO ED IMPULSO SECONDARIO: associando uno stimolo neutro ad uno stimolo-impulso, si ottiene un rinforzo dello stimolo neutro. Ad esempio il denaro, per l’uomo, non contiene valore intrinseco ma consente di raggiungere un grande numero di ricompense. Per ciò che attiene all’impulso secondario, questo, analogamente al rinforzo secondario, si genera a partire da un accoppiamento tra uno stimolo neutro ed uno stimolo-impulso: quando si ripresenterà lo stimolo neutro, questo fungerà da impulso generando la risposta dello stimolo-impulso. Un esempio è la paura: abbinando uno stimolo neutro ad una sensazione dolorosa, lo si carica delle caratteristiche di un impulso che, ogni volta, darà una risposta analoga a quella osservabile nel caso venga applicato quel determinato stimolo doloroso.
5) REAZIONE ANTICIPATA E FRAZIONARIA ALLA META:  La reazione alla meta consiste nel fruire attivamente della ricompensa che si ottiene nel momento in cui si fornisce la risposta. L’anticipazione della reazione è quel complesso di modificazioni dell’organismo determinate dalla consapevolezza che, arrivati alla meta, si otterrà la ricompensa. Ad esempio il topo che, alla fine del labirinto, troverà del cibo, anticipa la reazione alla meta salivando o leccandosi le labbra. Questa reazione si ottiene mediante esercizio rafforzato.
I teoremi di Hull
1) APPRENDIMENTO DISCRIMINANTE:  imparare a rispondere ad uno stimolo inizialmente debole piuttosto che ad un altro inizialmente forte.  E’ necessario rinforzare soltanto le risposte corrette al primo e non rinforzare quelle al secondo stimolo. Il rinforzo accresce il valore della forza dell’abitudine. Le curve di apprendimento che derivano da questo teorema sono sigmoidi se all’inizio alla risposta sbagliata corrisponde un più alto potenziale d’eccitazione rispetto a quella corretta, mentre hanno una accelerazione negativa se fin dall’inizio la scelta corretta è la più forte.

 

 


2) PREVISIONI COGNITIVE: sono rappresentate, nel corso dell’apprendimento, dalle reazioni anticipate e frazionarie alla meta. Questo determina una variabilità dei comportamenti volti all’ottenimento del risultato in previsione della ricompensa che si otterrà alla meta. Si attivano in questo caso metodiche che siano in grado di arrivare alla isposta nel più breve tempo possibile e con la minor fatica possibile (aggiramento di ostacoli e quant’altro) a dimostrazione che nell’apprendimento agiscono anche le intuizioni che, secondo Hull, sono rappresentate dalla motivazione incentiva. Mentre la forza d’abitudine si forma lentamente, la motivazione incentiva aumenta o diminuisce rapidamente determinando, qualora applicata nel corso delle azioni, ad un aumento della rapidità e dell’efficacia delle risposte. Miglioramenti improvvisi della prestazione derivano da questo fenomeno.


Teorie di compromesso ed altre teorie rilevanti
Spence
Riprende Hull medificando La relazione della motivazione incentiva con la reazione anticipata e frazionata alla meta. Nella realtà dei fatti le due cose coincidono per cui la motivazione incentiva non è più l’incentivo a produrre una risposta ma un mezzo per suscitare stimoli.
In quest’ottica l’abitudine non dipende dal rinforzo ma dall’esercizio. Questo discorso è valido solo per “ricompense consumabili” (cibo o simili); se la ricompensa è data dalla cessazione di uno stimolo nocivo le leggi sono differenti.
Spence, nelle sue elaborazioni, ha delle somiglianze con Tolman, anche se quet’ultimo è un teorico del cognitivismo.

Il valore di educare (F. Savater)

Cita una frase di Montaigne: “Il bambino non è un vaso da riempire ma un fuoco da accendere”. La capacità continua di apprendere, rende l’uomo peculiare rispetto a tutti gli altri mammiferi. In pratica nasce uomo ma diventa sempre più umano. Nascere uomini non rende le persone automaticamente umane poiché l’UMANITA’ è una caratteristica metafisica fatta di relazioni, di collegamenti, di continuo imparare, di convivenza, ecc.
Savater fa il paragone tra il neonato ed il piccolo scimpanzè: il primo è svantaggiato all’esordio ma supera il secondo alla distanza poiché dotato di  grandi capacità di apprendimento e di flessibilità molto maggiore.
Esempio mio personale: lo scimpanzè ha una ROM interna che gli consente di fare tutto molto presto ma limitatamente ad alcune abilità; l’uomo ha una RAM che, invece, può essere indefinitamente riempita e riprogrammata in modo da ottenere sempre nuove possibilità. Sono d’accordo con S. quando dice che la gioventù o la vecchiaia non si misurano in anni ma in quantità di curiosità. “La vecchia non voleva mai morire…..”
L’uomo ha in sé, geneticamente, delle naturali disposizioni che lo rendono potenzialmente più abile in alcuni campi piuttosto che in altri: è l’ambiente culturale e sociale in cui vive che ne consentono lo sviluppo pieno, fino al raggiungimento, talvolta, di vere e proprie vette (vedi i grandi musicisti o pittori o scultori o scienziati). I processi di sviluppo delle abilità connaturate, però, passa necessariamente attraverso lo sviluppo di qualità accessorie che fanno da base all’edificazione del monumento. Prendiamo l’esempio del musicista: la naturale disposizione per il pianoforte non fa di Mozart automaticamente un genio. E’ necessario che l’ambiente che lo circonda sia favorevole allo sviluppo del talento innato (economie familiari, persone che frequentano la casa, cultura di base dei genitori, scuola ed istituzioni ad hoc) e che l’educazione del soggetto sia volta allo sviluppo del senso di responsabilità (regole intra ed extra familiari che sollecitino nella persona una autoregolazione in quel determinato campo, tale da consentire alla disposizione naturale di esprimersi). L’applicazione, lo studio, il tempo dedicato all’affinamento delle tecniche, faranno da corollario alla passione congenita. In questo campo rientra la motivazione che ha bisogno di essere rinforzata dall’esterno e dall’interno della persona stessa.
La tensione educativa nasce da una caratteristica peculiare della razza umana: la consapevolezza che esiste l’ignoranza. “L’insegnamento non nasce dalla consapevolezza di saperi condivisi, ma dall’evidenza che esistono simili che ancora non li condividono” (Savater  che spiega  Jerome Bruner, Psicologo americano).
Essere “umani” consiste, in definitiva, nella condivisione dei saperi e delle esperienze.
Kant: le carenze di coloro che educano riducono le occasioni di perfettibilità che i loro alunni potrebbero avere per mezzo dell’educazione. La prima cosa che un uomo insegna ad un altro uomo è di essere un uomo. Il titolo richiesto per educare è l’aver vissuto e fatto esperienza, quindi non necessariamente una cultura umanistica o scientifica ma essenzialmente umana. In questo senso l'età gioca un ruolo importante: chi è più anziano ha titoli maggiori.
L’educazione non è una conseguenza del vivere in una società. Piuttosto l’impellenza di educare ha creato la società. Se infatti è naturale che due genitori amino i propri figli ed insegnino loro, non è altrettanto spontaneo il fatto che estranei al nucleo primitivo si dedichino all’istruzione dei propri simili. In questo fenomeno gioca un ruolo l’affetto, l’amore per gli altri che nasce proprio dall’ansia di insegnare a chi non sa, anche al di fuori del ristretto ambito familiare. Insegnare è parlare, comunicare, instaurare una dialettica ma non è semplicemente Informare (nel senso di riempire di dati): piuttosto significa aiutare a comprendere i significati delle cose, operazione che supera di gran lunga il semplice atto dell’acquisire una brutale e banale competenza pratica. Educare è anche e soprattutto recepire il senso di quanto si viene imparando: non è sufficiente, infatti, insegnare a pensare ma soprattutto è fondamentale insegnare a RIFLETTERE (che non è altro che pensare su ciò che si pensa). Quest’ultima operazione non può prescindere dalla comunicazione con altri esseri poiché soltanto ponendo in relazione le proprie esperienze con quelle altrui si può ottenere la riflessione.
Cito testualmente: prima di essere educato il bambino non possiede una propria personalità che l’insegnamento possa soggiogare, bensì una serie di disposizioni generiche biologiche: con l’apprendimento (sia sottomettendovisi che ribellandosi) forgerà una identità personale unica ed irripetibile che gli sarà propria. In questo senso l’apprendimento è una forma di CONDIZIONAMENTO  ma consente di acquisire quella che si denomina “libertà umana”.
Mia aggiunta personale: si può evadere da un carcere solo quando si ha la nozione di carcere e si è consapevoli di esservi rinchiusi.
Il fine dell’insegnamento non è soltanto quello di acquisire esperienze e nozioni: se così fosse non si realizzerebbe la società umana poiché l’individuo, per quanto lentamente, riuscirebbe anche da solo nello scopo. Il vero fine dell’educazione è quello di trovare la propria umanità attraverso le relazioni con altri individui animati dalla stessa intenzione.
Se ho ben interpretato, quindi, a fare l’uomo sono il dialogo e la controversia ma soltanto in ragione della capacità di ogni singolo di cambiare opinione se è di fronte ad un’opinione migliore.
Nel processo di apprendimento le prime due nozioni importanti sono quelle della non unicità dell’essere umano (che vive in un ambito sociale e quindi deve comunque rendersi conto e tener conto del prossimo), e della dimensione storica e prospettica della razza umana, nel senso che ogni nuovo individuo non è l’iniziatore della propria specie ma è soltanto un elemento (il più recente) in una serie nella quale esistono predecessori e successori. Questi elementi introducono nell’educazione l’automatica acquisizione della nozione di società e di tempo. Ogni società conosce il proprio passato e si proietta nel futuro: questo fornisce la misura dell’importanza del tempo nella vita umana.
La medaglia tempo ha una faccia angosciante (quella del termine posto alla non eterna vita) ma presenta altresì un aspetto molto più stimolante: la sua possibilità di ampliamento in termini di qualità e significati. Si può 

proiettare se stessi nel futuro o si può essere partecipi di un passato glorioso oppure ancora si può credere in un aldilà oppure ancora si può rendere lunga la propria esistenza riempiendola di esperienze e di curiosità di apprendere.
L’insegnamento non è mai a senso unico: si impara anche da chi sta imparando da noi.
Se è vero che possiamo imparare qualcosa da chiunque, non è vero che possiamo imparare da chiunque qualsiasi cosa.
Le istituzioni educative compaiono quando ciò che deve essere insegnato è un sapere “specifico”. Non è quindi vero che si può imparare ogni cosa compiendo diretta esperienza, come preconizzato da alcuni spontaneisti.
Ogni educazione umana è deliberata e coattiva: gli obiettivi divengono quindi importantissimi.
Al tempo dei greci l’insegnamento delle qualità metafisiche (morale, politica, etica, senso civico, ecc.), era nettamente separato da quello delle abilità pratiche (matematica, fisica, ecc.): le prime erano proprie del cittadino libero che si dedicava allo sviluppo del pensiero; le seconde erano tipiche dei "Banausi" (servi, schiavi, ecc.). In pratica: l’educazione era separata dall’istruzione.
Le due forme, nell’età moderna, dovrebbero essere integrate. La realtà ha mostrato che le esigenze di produttività per motivi economici e di bilancio, hanno privilegiato le specializzazioni di tipo pragmatico relegando in secondo piano (se non disprezzando od eliminando) l’educazione in senso greco. Da quanto premesso all’inizio, in definitiva, si arriva all’eliminazione di quanto più umano ed umanizzante esiste nel processo d’educazione di un individuo.
John Passmore: “Va operata una distinzione fra capacità aperte e capacità chiuse. Quelle chiuse sono strettamente funzionali (camminare, vestirsi, lavarsi, leggere, scrivere, far di conto, ecc); le capacità aperte implicano invece un dominio graduale ed in qualche modo infinito. Nel corso di un’intera vita non si acquisirà mai una abilità definitiva a dominare un’abilità aperta (poesia, musica, ragionamento, parola, pittura, ecc.). Capacità chiuse ed aperte sono tra loro unite (per poter poetare occorre saper scrivere) ma mentre le chiuse, con l’acquisizione della competenza perdono interesse in se stesse (poiché divengono routinarie e le si compie senza quasi accorgersene), quelle aperte schiudono un orizzonte di scelte sempre più ampio a misura che si procede nell’acquisizione di porzioni di sapere. Questo significa che nelle abilità chiuse esistono poche domande e molte possibili soluzioni, nelle aperte avviene esattamente il contrario: le domande sono infinite ma poche sono le risposte. Infatti, nell’ambito delle capacità aperte, esiste spazio amplissimo per l’esperienza personale, è richiesta una attitudine alla critica ed una predisposizione alla discussione piuttosto che all’obbedienza. L’attività di un alunno deve, in virtù di quanto detto, comprendere anche la discussione di quanto insegnatogli dal proprio maestro (che gli sta trasmettendo informazioni da lui precedentemente assorbite e digerite ed il cui metabolismo ha comunque determinato una modificazione) e non un passivo assorbimento.
La cosa importante quindi non è apprendere ma INSEGNARE AD APPRENDERE: Jean Balme disse che l’insegnamento è l’arte di costruire fabbriche e non magazzini.
LA FAMIGLIA NELL’EDUCAZIONE
Nel momento in cui il bambino va a scuola dovrebbe già aver imparato, in famiglia, i canoni della SOCIALIZZAZIONE PRIMARIA (pulirsi, vestirsi, obbedire, condividere).
Lo sviluppo di queste abilità, durante la crescita da luogo allo sviluppo della SOCIALIZZAZIONE SECONDARIA che, come evidente, dipende strettamente dalla prima. Se la socializzazione primaria è stata buona, l’attivazione della secondaria consisterà nell’ampliamento del raggio di applicazione di parametri già fissati all’interno dell’individuo.
Gli elementi da imparare, nell’ambito familiare, sono proposti e si radicano attraverso l’affetto. La base dell’apprendimento nella famiglia è quindi fondata sulla minaccia di perdere questo affetto se non esiste conformazione alle regole.
Facendo una banale riflessione su ciò che avviene agli adulti, ogni atto è condizionato all’approvazione del prossimo: non si ricerca, infatti, l’amore del prossimo ma piuttosto si agisce spinti dall’esigenza di non perdere l’amore (o la stima, o il rispetto) degli altri.
L’educazione familiare si attiva soprattutto mediante l’esempio: ciò che si ottiene dai figli è il risultato dell’identificazione (nel bene e nel male) del bambino nei suoi modelli. La parte positiva di questa metodica si configura nei PRINCIPI mentre quella negativa sfocia nei PREGIUDIZI: una buona educazione (dato che nessuno è perfetto) consiste nella media tra principi e pregiudizi, cercando di far pendere l’ago dalla parte dei primi e non dei secondi.
Attualmente, per fenomeni attribuibili all’economia, al progresso, all’appannamento sempre maggiore delle figure di riferimento, nelle famiglie sono sempre meno presenti i genitori e gli anziani. La mancanza di tempo ed il mutare dei costumi hanno delegato l’educazione alla scuola in modo sempre più marcato. La scuola, per converso, non ha subìto un adattamento a questa situazione e non è quindi in grado di far fronte all'esigenza proposta.
La famiglia è sempre più “svogliata”: i genitori tendono ad occupare il loro tempo per realizzazioni personali sia sul piano lavorativo che fisico. Il mito di rimanere eternamente giovani li rende sempre meno adatti ad incarnare il ruolo di punti fermi nella vita dei figli. Essi stessi ricercano al di fuori di se il modello cui ispirarsi e sono perciò meno pronti ad essere specchio di quanto ai propri figli accadrà da adulti. In pratica è come se volessero rimanere eternamente figli a loro volta.
Nella mente dei loro figli essi dovrebbero essere inclusi come simbolo dell’ineluttabile evoluzione cui sono costretti a sottostare durante la crescita. Un padre “amico” del proprio figlio non sarà, per lui, un modello cui ispirarsi.
L’incapacità di gestire in prima persona il compito e la delega allo stato di tale carico, genera dei mostri educativi: il genitore concede pretendendo dallo stato le limitazioni (vedi le discoteche: il genitore consente al figlio di frequentarle ma, lungi dal porre limiti che lo responsabilizzino in prima persona,  pretende il controllo della sua sicurezza e la limitazione di tutte le possibili evenienze dallo stato e dalla polizia).
 

Autorità significa (dal Latino) “aiutare a crescere”: l’esempio e la comunicazione ne sono i cardini. I princìpi sono quelli di abituare il bambino ad un mondo nel quale esistono altre persone che fruiscono degli stessi diritti. Questo enunciato configura quello che in psicanalisi è denominato “principio di realtà” e consiste nella limitazione dei propri appetiti in considerazione di quelli altrui e nella capacità di rimandare gratificazioni immediate in vista dell’ottenimento di gratificazioni ancor maggiori a lungo termine.
Il principio di realtà nasce dalla PAURA. Questa deriva dalla consapevolezza dei propri limiti, sia temporali (la morte) sia metafisici. La consapevolezza della propria fragilità impone la ricerca di riparo, sostegno, aiuto, collaborazione, affetto, comunicazione. Durante la crescita, l’obiettivo dell’educazione è di trasformare questa paura in rispetto per ciò che si fa in relazione all’importanza sociale che ogni azione determina: se faccio il bene ottengo gratificazione nel farlo ma anche rispetto, amore, considerazione, ecc. e quindi mi sento più protetto (di conseguenza non ho paura).
BETTELHEIM: il bambino deve temere qualcosa se si vuole che applichi la propria attenzione al compito di imparare. L’evoluzione della razza umana ha trasformato le paure primordiali (buio, violenze fisiche) in paure morali (perdita della stima e dell’affetto dei genitori, dei maestri, ecc.). Questo concetto, proiettato nella vita dell’adulto, si trasforma nella PAURA DI PERDERE IL RISPETTO PER SE STESSI.
La figura del PADRE dovrebbe essere quella che incarna l’autorità. Non si parla di suddivisione dei compiti di ordine sessuale (anche una madre può essere un buon padre). Essere padre, infatti, significa amministrazione della giustizia, imparzialità, erogazione di elementi sui quali fondare un terreno adatto alla crescita, affettuosa severità.
La televisione ha abbreviato in modo significativo il periodo di “innocenza” dei bambini moderni. Già molto presto, infatti, i bambini sono posti, loro malgrado, ad una messe di informazioni che li rende edotti su molti aspetti della realtà e, nella maggioranza dei casi, senza filtri o spiegazioni.
Genitori e maestri non hanno più un terreno vergine su cui lavorare ma una superficie irregolare sulla quale insistono brandelli più o meno formati di edifici. Il compito principale è divenuto quello di demolire quanto è inutile o dannoso e di completare tutto ciò che di utile si è già edificato in embrione (frase mia personale).
In tal senso l’insegnamento del principio di realtà, oltre ad essere utile in se, condiziona nel bambino la possibilità di sottoporsi allo sforzo di “imparare” a distinguere la realtà dalla sua falsa rappresentazione. La televisione fornisce l’illusione che tutto possa essere ottenuto senza sforzo: l’insegnante ed il genitore dovrebbero riportare “a terra” il piccolo utente, dimostrandogli che non è vero. La dissacrazione dei contenuti trasmessi dai mass media dovrebbe essere uno dei metodi principali per aggirare il rischio di una omologazione ai modelli da essi proposti in modo così semplice, immediato e seduttivo (al contrario di quanto ci si propone di ottenere con fatica, lentezza e sacrificio mediante i processi educativi).
L’ETICA non può essere insegnata per temi come una materia qualsiasi. Dovrà infatti essere l’istituzione educativa nel suo insieme (atteggiamenti dei maestri, rapporto coi compagni, rispetto reciproco, ecc.) ad essere impregnata di etica. L’etica si insegna dimostrandone i cardini nella pratica: abitudine a collaborare, comunicazione, rispetto degli altri attraverso l’autonomia personale. I concetti di adulazione, menzogna, ecc. possono essere trasmessi altrettanto facilmente per la stessa via. Diviene quindi fondamentale che, accanto alla pratica, vi sia una teoria nella quale faccia la parte principale una esposizione dei princìpi morali sui quali fondare il modo di vivere. In tal senso, quindi, non si parla tanto di etica quanto di formazione di una “coscienza morale” individuale che non è altro se non l’interiorizzazione di un’etica in senso generale.
Il coraggio, la generosità e la prudenza non derivano da una “rivelazione” mistica e dogmatica, ma dall’elementare desiderio di vivere più a lungo e meglio. L’etica, quindi, è valida per ogni essere umano in quanto parte necessaria della vita stessa (conservazione della specie e dell’individuo), mentre la religione (con la quale peraltro l’etica condivide alcuni elementi) può non essere una necessità universale.
ETICA SESSUALE: l’informazione sul piano strettamente meccanico sono fondamentali ma non sono sufficienti: in quest’ottica, infatti, gioca un ruolo di primo piano la morale intesa come presa di coscienza del significato che l’atto in se rappresenta confrontato con quello di cui si riveste nel momento in cui vi si associno i princìpi etici più sopra descritti (rispetto, amore, ecc.). Una depenalizzazione dell’atto sessuale e del piacere che se ne ricava, rende l’atto stesso naturale e perciò stesso lo libera dalla sua “facoltatività” relazionata alla sola procreazione e non ad una gratificazione della quale vergognarsi.
DROGA: l’inutilità dei divieti è notoria. L’informazione coerente (e non la semplice demonizzazione) smontano il giocattolo e lo rendono sicuramente meno appetibile: non esiste, in questo caso, il fascino del mistero. Di fatto, in questo modo, si ottiene un terreno sul quale il seme può essere piantato a ragion veduta: la conoscenza di ogni aspetto di un problema rende libera la scelta e consapevole l’atto.
VIOLENZA: non dovrebbe essere bandita poiché rappresenta un inevitabile aspetto della vita umana. Essendo connaturata all’uomo non è meglio o peggio della concordia: dipende dall’uso che se ne fa. La regolazione della violenza dipende dal valore che l’individuo attribuisce alle istituzioni che dalla violenza fanno desistere. La violenza è pericolosa solo quando è irrazionale: se l’educazione si assume il compito di discuterla e ridurla a quello che essa rappresenta,  sarà il bambino stesso ad incorporarne gli aspetti positivi e negativi imparando a gestirla. Ad esempio, nel caso dell’autodifesa, la violenza può essere un utile strumento.
 

LA DISCIPLINA DELLA LIBERTA’
Insegnare qualcosa significa, per regola, esercitare una coercizione su una persona che, per imparare, deve faticare. Chi insegna ha il diritto / dovere di esercitare questa coercizione, senza la quale non si otterrebbero risultati. Si educa anche per ragioni egoistiche (perpetuazione del sapere umano, realizzazione attraverso i figli di un sogno di eternità). L’educazione, in questo senso, costituisce una sorta di opera d’arte collettiva che crea esseri umani invece che pitture o statue. Il modello su cui si prende la forma è l’essere umano già esistente.
Il fatto che ci si senta dire dai figli “io non ho chiesto di nascere” non esprime la nostalgia del non essere ma piuttosto la scoperta di ciò che si è. Tutti coloro che insegnano, quando capaci ed abili, sanno che la loro opera non è che un trampolino dal quale è d’obbligo veder decollare coloro che hanno fruito degli insegnamenti ed il prezzo è pagato in smentite, in confutazioni, in superamenti. Obiettivo dell’educazione è quello di creare individui liberi nell’ambito della società in cui vivono. Si tratta di integrazione sociale e non di fumose teorie aprioristiche nelle quali la parola libertà non possiede connotazioni pratiche. HEGEL: “ non si parte dalla libertà ma si arriva ad essa” (vedi la mia personale frase sul carcere). L'unica cosa cui si può aspirare è ad un miglior adattamento possibile a quanto è obbligatorio in ambito sociale. In definitiva libertà non significa assenza di condizionamenti ma conquista di un’autonomia simbolica che ci abitua a innovazioni e scelte possibili solo dentro la comunità.
Studiare è una forzatura: la gratificazione che ne deriva è, per il bambino, talmente lontana che egli la può conoscere solo attraverso un atto di fede nei confronti di chi gliela racconta e promette. Il bambino non sa di non sapere e quindi non sente il bisogno di sapere ciò che non sa: se si sottopone all’educazione può essere solo per fiducia e per coercizione. Non si può educare senza in qualche modo contrariare chi è educato. Autonomia, virtù sociali, ecc. devono giocoforza entrare nel bambino sotto forma di modelli cui ispirarsi. Se non è l’educatore a svolgere questo compito, c’è il rischio, reale, che esso venga assunto dalla tele, dalla strada, dalle bande, ecc.
La fola che la creatività naturale del bambino venga repressa e castrata dall’educazione è, appunto, solo una fola.
La creatività innegabile del bambino è, di fatto, espressa solo come potenzialità e non come capacità effettiva. LEVI-STRAUSS: ”le funzioni mentali risultano da una selezione che sopprime una grande quantità di capacità latenti…..bisogna inchinarsi a questa necessità ineluttabile per cui ogni apprendimento corrisponde ad un impoverimento. Quest’ultimo, infatti, riguarda i doni dell’infante. Per ciò che riguarda l’uomo il risultato è un consolidamento”
Nessun processo educativo è possibile senza disciplina (dal latino “discere e puer”). Attenzione va posta all’educazione come strumento di “normalizzazione” sugli individui adottato dal potere.
Il gioco, che è un’attività fondamentale di bambino ed adulto, non sembra essere una giusta strategia per evitare la coercizione nell’insegnamento. Spesso è utile, all’inizio dell’insegnamento, interessare i bambini mediante tecniche che includano forme di gioco ma non quando le cose da insegnare divengono più tecniche o complicate e richiedano logica e razionalità. Il gioco, infatti, è “sperimentazione” del caso (Novalis). La prima cosa che si impara a scuola è proprio che non si può giocare tutta la vita. Del resto l’impegno fa apprezzare di più i momenti di svago. Lavorare e guadagnarsi i momenti di libertà e pazzia ne aumenta il valore e ne fa comprendere il significato. L’era moderna, il benessere e quant’altro hanno generato un mondo nel quale le soddisfazioni anticipano i bisogni e le risposte intervengono prima delle domande: un po’ di sana fatica non è sicuramente apprezzata ma è di certo utile per la formazione delle persone. Il bambino deve imparare che la cultura non è qualcosa che si consuma ma è qualcosa da “assumere” attivamente. Le proposte dell’educatore, quindi, devono, se necessario, affiancarsi alle imposizioni. Va sottolineata la complementarietà fra discente e docente: non sono entrambi sullo stesso piano.
Da qui al trasformare i bambini in una minoranza oppressa il passo è breve: c’è chi lo ha fatto. Ora, gli adulti “disimpegnati” ed eterni giovani, non fanno altro che rifiutare la responsabilità del mondo in cui hanno introdotto i figli. (Hannah Arendt).
Se è giusto impedire l’arroganza e la brutalità, è giusto apprezzare in giusta misura l’insolenza. Insolenza è affermazione dell’autonomia individuale e dello spirito critico. Per un insegnante è la spia di un efficiente sistema di insegnamento in quanto sintomo di crescita della libertà di pensiero.
 

Metafore della pubblicità (A. Abruzzese)

Per fare un discorso congruo ed intelligente sulla pubblicità bisognerebbe analizzarne gli aspetti sfuggendo agli estremi della sua definizione.
Il primo (tutto è pubblicità) fa morire arte, politica, religione che si dissolverebbero all’interno del contesto pubblicitario e non sarebbero più entità distinte; il secondo (la pubblicità è fine a se stessa) è un falso poiché la pubblicità ha una forte valenza sociale ed un impatto sul modo di vivere.
In definitiva bisognerebbe trovare una dimensione nella quale poter osservare l’osmosi fra i vari livelli che caratterizzano la pubblicità: il fine puramente merceologico (vendita di un prodotto), quello politico / sociologico (gli effetti collaterali caratterizzati da modificazioni nel modo di vivere, conflitti che vanno controllati), quello socioeconomico (stili di vita e modelli),  quello linguistico (i codici ed i linguaggi specifici che alla fine contaminano la massa). La pubblicità, quindi, va studiata in base alle metodiche di azione e non in relazione ai significati. Non è da sottovalutare il dato puramente estetico che va osservato in se stesso, come forma d’arte, e non necessariamente in base al prodotto reclamizzato.
Una “via di mezzo” dovrebbe essere trovata anche fra atteggiamenti degli studiosi di fronte alla necessità di comprendere il fenomeno: il pubblicitario ed il filosofo sono agli antipodi per ciò che attiene alla valorizzazione o alle detrazioni che possono essere attribuite alla sostanza in esame quindi non sono inclini ad una analisi sistematica omnicomprensiva. La visione frammentaria che ne fa il pubblicitario contrasta con le pretese di totalizzazione accampate dal filosofo o dal sociologo. La contaminazione fra queste due posizioni e la continua oscillazione tra esse genera la perdita di orientamento verso il centro del problema.
Capire la pubblicità è necessario, anzi vitale, per coloro che ne riconoscono la potenza e soprattutto per i professionisti del settore.
Essi, infatti, riconoscono la forza dell’arma che gestiscono ma tendono a sottrarsi alle loro responsabilità nell’uso che ne fanno a livello sociale. Il pubblicitario, anche se famoso e ricco di esperienza, tende a rimuovere l’aspetto sociale del suo lavoro: ama gli allori ma declina i rischi del suo lavoro o gli errori che commette nello svolgerlo in quanto si ritiene interprete della civiltà contemporanea ed artefice della persuasione e della retorica.
La pubblicità è nata insieme alla civiltà industriale e, col tempo, si è impossessata di volta in volta del medium più potente disponibile sul mercato (manifesto, giornale, radio, cinema, tv) usando le tecniche espressive più efficaci (realismo, impressionismo, espressionismo, ecc.) e cercando i mezzi sociali più persuasivi (musica, parola, immagine, ecc.).
Allo stato attuale la pubblicità è un indicatore della vita quotidiana in primo luogo perché si fa interprete dei bisogni e delle merci che li soddisfano, in secondo luogo perché compie la sua opera attraverso modi di sentire e di comunicare.
Intorno alla pubblicità ruota ogni forma di comunicazione e di spettacolo ed ogni interesse:  il giro di denaro messo in moto dalla pubblicità smuove anche cinema, teatro, giornali,  svaghi, libri, ecc.
Questa realtà innegabile è sempre esistita ma mai come oggi è emersa in tutto il suo crudo realismo. Molti scorgono nel potere e nell’invadenza della pubblicità, segnali di una degenerazione dei valori culturali, di una costrizione dell’individuo nella sua facoltà di libera scelta, di un decadimento del gusto, di una fomentazione allo sperpero, di un edonismo collettivo immorale. Questa avversione verso la pubblicità, lungi dall’indebolirla, la alimenta: i pubblicitari, infatti, in lotta contro gli ostacoli fisici e filosofici posti dagli oppositori, trovano sempre nuove strategie e, soprattutto, sempre più raffinate (le strategie diplomatiche valgono anche nel campo del Marketing).
Gli atteggiamenti nei confronti della pubblicità sono molti: la si critica ma non si resiste al suo linguaggio (gli utenti), non la si legittima ma vi si ricorre (le Istituzioni e la Politica), la si disprezza ma se ne sfrutta la ricchezza. Molti intellettuali la marginalizzano e la criticano senza conoscerne tutti gli aspetti.
Ormai ogni aspetto della vita quotidiana è ritmato e scandito da un’immagine, da un Jingle, da uno slogan, da un marchio; si tende a parlare col linguaggio introdotto dalla pubblicità.
Se ne riconosce solo adesso l’importanza, dopo secoli di attività industriali ed artigianali che hanno basato il loro sviluppo su di essa. Le radici della pubblicità affondano in epoche nelle quali erano l’impressionismo, il futurismo, il surrealismo a farla da padroni. La contaminazione fra cultura d’élite e cultura di massa, fra tecnologia ed artigianato, fra mercato e creatività, è sempre stata un cardine.
Nello storico trasferimento dalla strada alla casa, passando per la radio, la pubblicità è dilagata quando è avvenuto l’approdo alla televisione. L’espansione e l’affinamento delle tecniche unito alla costante presenza,  non poteva non provocare fenomeni di rigetto da parte della cultura e del potere preesistente. Ancora oggi è valida l’obiezione di uomini di cultura che la pubblicità non soddisfa ma crea bisogni inesistenti; d’altro canto i pubblicitari controbattono che qualora ad essere reclamizzato sia un prodotto che non soddisfa un desiderio od una necessità fattuali, la pubblicità stessa fallisce il suo scopo: non è la pubblicità che fa nascere i desideri ma esattamente il contrario (personalmente non sono assolutamente d’accordo).
Si obietta che gli stili di vita proposti nella pubblicità siano uniformi e ripetitivi (tutti felici, ottimisti, ricchi, belli, potenti, rassicuranti) a fronte di una realtà che è l’opposto e che esprime un polimorfismo infinito: sembra angusto l’orizzonte che si prefigge, rispetto all’enorme variabilità caratteristica del mondo. Il discorso pubblicitario è “tra virgolette”, parziale, settario, consumistico, fomenta le disparità sociali ma, se interpretato, si può osservare come la cultura pubblicitaria si collochi al di la degli interessi economici e del prodotto da vendere. In pratica sta divenendo un patrimonio espressivo, cioè un insieme di attitudini e di procedure innovative e provocatorie. Per tale motivo diviene sempre più trait d’union tra stampa e TV, fa parte del potere.
Per Abruzzese il merito della pubblicità sta nell’aver integrato tendenze divergenti, ad esempio ha coniugato la sua vocazione materialistica con l’idealismo della tradizione letteraria, tende ad avere una vocazione culturale che si rivolge alle necessità collettive che la rende flessibile (contrariamente alla rigidità ed immutabilità delle culture istituzionali, meno attente ai bisogni delle persone sia per ciò che attiene ai desideri che alle effettive necessità), si presenta come un ente che esiste all’interno delle cose e non semplicemente all’esterno di esse (presenza positiva).
A queste vocazioni si collega un nuovo tipo di linguaggio, rapido, frantumato, ed un mutamento dei valori estetici che, partito dalle avanguardie storiche (futurismo, ecc.) è esploso ai nostri giorni.
Privilegia la fisicità più che i concetti, il ritmo piuttosto che la narrazione, l’inconscio piuttosto che la razionalità.
Le strategie di penetrazione, invadenti, in realtà posseggono effetti collaterali quali una incidenza sullo stile di vita quotidiano, sui rapporti familiari, sull’igiene, ecc.
Il limite e la pericolosità risiedono nella scarsa preparazione culturale dei pubblicitari rispetto agli effetti da essi indotti sulla società nel momento in cui vi si inseriscono col loro lavoro di persuasione.
Un “filtraggio” dei messaggi pubblicitari e del loro linguaggio alla luce dei canoni di una cultura consolidata (fatta di credenze religiose, di linguaggi storici, ecc.), secondo Abruzzese non è possibile: essendo cambiata la forma della comunicazione, la pubblicità, con i suoi messaggi decontestualizzati, senza diretti riferimenti agli oggetti, spettacolarizzando gli eventi, ha assunto una forma peculiare che è possibile penetrare solo usando gli stessi mezzi e sistemi, non tradizionali.
Secondo questo concetto, essendo dominanti questi linguaggi, è solo attraverso di essi che se ne può concludere qualcosa (a me sembra parziale e pericolosamente tendenzioso, questo Abruzzese).
Cultura di massa e scienza / arte, per poter concretarsi in un messaggio pubblicitario, devono alla fine trovare punti di contatto. In questo senso la cultura di massa, prima disprezzata, viene sdoganata e valutata proprio dalla pubblicità che riesce a coniugarla con la scienza e l’arte: si crea una contaminazione che, da qualcuno, viene denominata neobarocco.
Secondo Baudrillard la pubblicità si colloca al di la dei significati e dei sensi comuni che, automaticamente, non sono più obiettivi da raggiungere: non si rileva una deontologia ne una morale. La grandezza della pubblicità, secondo lui, risiede proprio nella sua libertà di movimento senza freni ne limitazioni etiche o morali.
In realtà Baudrillard decreta la perdita di senso della pubblicità che va in parallelo alla perdita di senso di ogni campo dell’esperienza. Essa è divenuta minimo comune denominatore di ogni forma di comunicazione, ivi incluse quelle della politica, dello stato.
Il potere dell’informazione è vincolato alla pubblicità quindi attaccandola si attacca anche questo potere. La sua interpretazione è possibile solo dopo che la si è inserita in un preciso contesto: stampa, cinema, radio, ecc. in diversi periodi, sono stati i parametri sui quali si è modellata la società per cui non si può farne paragoni col contesto attuale nel quale domina la Tv ed il linguaggio mediato dalla pubblicità. Solo inserendo la pubblicità in un ambito temporale e storico che le è proprio, è possibile cercarne i significati e le pregnanze.
Il linguaggio della pubblicità, estremamente veloce e frammentato, esprime il nostro presente che lo è altrettanto.
 

Etica per un figlio (F. Savater)

Massima per l’educazione:
Quando tratti qualcuno da idiota, se non lo è già è probabile che lo diventi presto.

L’uomo sceglie ed in virtù delle sue scelte conduce il destino della sua vita. Gli atti di volontà prescindono dal bene del singolo che li attua e tengono conto anche del bene della società in cui egli vive (ad esempio il sacrificio di una persona che ne salva altre col suo gesto).
Il fatto di poter scegliere compiendo atti di volontà, rende ragione della libertà di cui l’uomo è padrone. Ovviamente tale libertà è incanalata, a seconda delle diverse culture, in ambiti piuttosto ristretti (educazione, storia, fedeltà alle tradizioni, regole sociali) ed in condizioni normali l’uomo è, nei suoi comportamenti, abbastanza prevedibile. Nulla vieta, però, che sia libero (ad esempio) di darsi la morte o di darla agli altri: ipotesi improbabili ma non impossibili.
Libertà (che teorizza la possibilità di scegliere) non significa onnipotenza (poter ottenere tutto, sempre e comunque).L’onnipotenza è irraggiungibile poiché la volontà e la libertà del singolo contrastano con la volontà e la libertà altrui, o con regole insormontabili dettate dalla natura.
In definitiva l’uomo è libero di scegliere e trovare soluzioni ma con la cognizione che è possibile sbagliare.
L’ETICA è l’ARTE DI SAPER VIVERE, riflettendo su ciò che si sceglie e valutandone le conseguenze ed i vantaggi per se stessi e per la società che è intorno.
Di fronte alle possibili evenienze è opportuna la scelta che consente in maggior misura di conservare più “convenienze”, sia che si parli di valori morali che materiali (il minor male possibile).
Talora, infatti, bisogna rinunciare a cose che si vogliono per ottenere cose di cui si ha bisogno, ma che non si vorrebbero.
La maggior parte dei comportamenti umani è routinaria (abitudini), quindi non richiede ogni volta scelte che siano frutto di valutazione; altre volte si agisce obbedendo alla volontà altrui (ordini); altre volte ancora, infine, si agisce per il puro gusto di farlo (fischiettare, tamburellare con le dita, ecc.: capricci).
Alle abitudini si risponde perché sono parte automatica del vivere quotidiano.
Agli ordini si risponde in quanto, si suppone, sia conveniente farlo in ordine al fatto che chi  li impartisce agisce anche nel nostro interesse oppure che non obbedendo se ne trarrebbe uno svantaggio (ad esempio si può obbedire per la paura che incute chi impartisce l’ordine).
Al capriccio si risponde poiché soddisfa un’esigenza interiore che non inizia da alcuna parte e non ha alcuno sbocco pratico se non quello di affermare a se stessi la possibilità di agire.