Il disabile/disagiato e la famiglia

Quanto segue è il testo di una relazione che ho fatto ad un Congresso Internazionale di Educazione Familiare ai tempi in cui mi interessavo di disabilità e riabilitazione in un Centro, con annessa Casa-famigia, qui a Roma. L'ho scritto nell'ormai lontano 1997 ma rileggendolo, alla luce dell'attuale situazione sociale Italiana, ne ho constatata l'attualità, soprattutto per ciò che attiene alle considerazioni che possono (e devono) essere tenute in conto non tanto e non solo per ciò che attiene al disabile/disagiato in se, quanto soprattutto all'entourage familiare/sociale che lo circonda, soprattutto ai fini di rendere migliore l'accettazione del problema da parte della famiglia. Di recente, ad un congresso su temi riguardanti i disturbi della differenziazione sessuale nel bambino, mi sono trovato a chiacchierare con una validissima psicologa relazionale che si occupa precipuamente di questi problemi presso il San Camillo di Roma ed ho trovato una chiara rispondenza tra quanto si è verificato, per la sua esperienza, utile per la cura psichica di chi ha a che fare con bambini senza una chiara identificazione sessuale e quanto da me ventilato come necessario in questa relazione. Pertanto penso che riportarla qui e metterla a disposizione di chi abbia intenzione di capire qualcosa su questo tema, sia doveroso. Buona lettura, dunque.

 

LA FAMIGLIA DEL DISABILE: CONSIDERAZIONI E PROPOSTE D’INTERVENTO

Tasca S.   

 


PREMESSA
La famiglia è il primo gradino che s’incontra quando si analizza una società. Questo significa che la sua struttura, variabile secondo le epoche ed il tipo di civiltà, riflette, in piccolo, la struttura della società stessa.
In Italia (e nei Paesi di analoga cultura) le funzioni di questo nucleo sono quelle (teoriche) di:
- prosecuzione della specie attraverso la riproduzione
- allevamento della prole, trasmissione della cultura, insegnamento delle regole
- relazione e socializzazione con altri gruppi familiari (realizzazione della Società).
Alla luce di quanto sopra, quindi, possiamo individuare alcuni aspetti caratteristici della famiglia che ci tornano utili per il nostro discorso.
1) La famiglia è un gruppo naturale che garantisce ai membri, ora come nel passato, protezione e stabilità ed è uno spazio fisico nel quale i componenti devono trovare soddisfazione ai bisogni di affetto, relazione, espressione individuale e socializzazione.
2) Come sua prerogativa fondamentale la famiglia è paragonabile ad un fluido più che ad un solido, poiché deve (o, meglio, dovrebbe) adattarsi alle diverse esigenze imposte dagli stadi di sviluppo, in ed extra nucleari, degli elementi che la compongono (ad esempio i figli che crescono, i genitori che invecchiano, esigenze di lavoro, imprevisti, la morte di uno dei membri o la sua invalidità) pur essendo, nello stesso tempo, un elemento tangibile, concreto, sul quale far perno per assicurare continuità di sviluppo.
3) L’elemento centrale utilizzato per stabilire equilibrio in ogni condizione destabilizzante, è la comunicazione. Ogni sistema famiglia stabilisce delle regole interne ripetitive e caratteristiche di quel nucleo familiare. In base a queste regole, ogni evento nuovo, sia esso interno od esterno alla famiglia in questione, trova la sua collocazione e crea un adattamento positivo, sotto forma di un nuovo equilibrio o di una trasformazione (ad esempio un figlio che si sposa e lascia la famiglia d’origine, impone ai membri rimasti, un cambiamento nello stile di vita che comporti la rinuncia mentale alla presenza quotidiana del membro uscente).
4) Ogni componente della famiglia, per mantenere la propria integrazione nel gruppo, deve evitare di sacrificare il benessere degli altri. Riprendendo il caso precedente (figlio che si sposa e si allontana da casa), la madre, ad esempio, non dovrebbe, per ristabilire il suo personale equilibrio, influire negativamente su quello altrui, accentrando sulla propria sensazione di perdita l’attenzione e le cure di tutti gli altri, togliendo loro una fetta di spazio fisico e mentale.
5) L’adattamento alle situazioni sopra esposte deve passare necessariamente attraverso un’accettazione del cambiamento ed una modifica dell’equilibrio da parte di tutti i membri. Se anche un solo elemento non subisce adeguamento, tutti gli altri ne risentono (il disagio interno di un membro aggiunge un fattore di squilibrio ulteriore ad una situazione già destabilizzata).

LA FAMIGLIA “DISABILE”
La presenza di un disabile all’interno di un nucleo familiare provoca modificazioni nella struttura del nucleo stesso. I cinque presupposti citati in premessa sono, in diversi gradi, non verificabili tra conviventi che annoverino nel gruppo un portatore di Handicap mentale sotto forma di una insufficienza più o meno grave accompagnata o meno da menomazioni fisiche.
In questa sede, per ragioni di spazio e di tempo, sarà necessario compiere qualche generalizzazione. Si terrà conto soltanto di quelle circostanze (purtroppo la maggioranza) nelle quali il vissuto è più tormentato e le soluzioni apparentemente meno numerose.
Per quanto, negli ultimi anni, si sia tentato di alleviare la fatica fisica e mentale, corollario di queste situazioni, mediante l’istituzione di Servizi di Assistenza domiciliare, di Centri Sociali o quant’altro, la famiglia vive un’atmosfera pesante determinata da molteplici fattori.
In primo luogo la convivenza con persone disautonome richiede una continua e stressante attenzione da parte di uno o più membri del gruppo che si trovano a subire limitazioni, talvolta notevoli, della propria libertà. La mancata realizzazione personale determina, in questi elementi, una forte ripercussione sulle capacità di relazione che, col tempo, tendono a diminuire in varietà ed in qualità. Per quanto, all’inizio, sopravviva l’intenzione di intrattenere rapporti corretti con gli altri membri della famiglia, la sensazione di impotenza e di frustrazione che lentamente emerge con gli anni e la consuetudine, rende difficili il dialogo e la comprensione. Il primo presupposto citato in premessa viene, quindi, a mancare poiché la famiglia non è più uno spazio nel quale socializzare, trovare affetto e soddisfazione, ma una pastoia, una sorta di trappola invischiante. A sentimenti naturali, quali l’attaccamento e l’amore per i membri conviventi (incluso il disabile) si associano idee di ostilità, sensi di colpa.
In modo particolare la diade madre-figlio disabile tende ad isolarsi dal resto del gruppo venendo a formare un nucleo intorno al quale gravitano gli altri membri, più o meno esclusi da rapporti fisiologici.
La famiglia, a causa della disabilità del congiunto, viene privata anche della sua flessibilità agli eventi esterni. Fenomeni quali il compatimento, la commiserazione (specie se il livello culturale del gruppo e dell’ambiente sociale è basso) provocano una chiusura al mondo esterno: non si vuole mostrare la propria “sfortuna” anche se, contemporaneamente, si esperisce un forte bisogno di aiuto. In questa situazione di assenza di scambi con l’esterno, il mondo si riduce di dimensioni, coincidendo, alla fine, coi confini che la famiglia erige intorno a se. Come si può constatare, quindi, anche il secondo presupposto elencato in premessa, viene ad alterarsi: la famiglia non è più un elemento plastico che si conforma alle esigenze della società, ma un corpo che si irrigidisce intorno a schemi fissi (tutto sommato i meno dolorosi da seguire) formando un monolite, forte solo in apparenza ma in realtà soggetto a sgretolarsi proprio a causa della sua durezza.
Le due circostanze appena illustrate sono accompagnate da una terza alterazione nella struttura familiare, costituita da un evidente difetto di comunicazione tra i membri componenti. Dato che ogni adattamento passa attraverso la discussione ed il confronto, nel caso in cui questi manchino si assiste ad un ripiegamento su se stessi di uno o più congiunti i quali giungono a manifestare difetti di relazione con l’esterno (lavoro, scuola) ed a sperimentare una forte demotivazione (a causa degli scarsi impulsi incentivi che una tale famiglia eroga). Talvolta si osservano vere e proprie fughe sotto forma di matrimoni arrangiati o di rapidi cambi di domicilio.
La separazione in gruppuscoli che facilmente avviene nell’ambito di queste famiglie, configura una situazione di disunione per ciò che attiene agli intenti. Ognuno cerca, in qualche modo, di trovare arrangiamenti per costruire un guscio protettivo tale da impedire il suo annullamento all’interno del problema “disabilità”, ma contemporaneamente è costretto ad orbitare (se non fisicamente, nei sentimenti e nelle emozioni) intorno ai disagi ed ai sacrifici che uno o più congiunti compiono in prima persona nell’assistere il parente inabile. I figli sposati giungono, talora, a riversare sui propri cari gli scompensi che tale ambiguità determina.
Come si osserva, anche la quarta e quinta prerogativa illustrate in premessa vengono ad alterarsi.
Quanto appena descritto, da noi rilevato nell’esperienza quotidiana con i nostri utenti e le loro famiglie, configura una situazione di “famiglia disabile”.
Le paure che la caratterizzano e che sono alla base degli scompensi citati, possono essere riassunte come segue:
 

a) Paura della “gente” essenzialmente per ciò che attiene al giudizio ed al compatimento ma, contestualmente, bisogno, perennemente insoddisfatto, di scaricare le tensioni al di fuori delle mura domestiche.
b) Paura della “solitudine” ma contemporaneamente anche dei contatti sociali
c) Paura di non reggere alla fatica ma, al contempo, di delegare ad altri l’assistenza (senso di colpa)
d) Paura del proprio “futuro” ma in particolare del destino riservato al disabile nel momento dell’estinzione della famiglia d’origine.

Nell’analisi delle varie situazioni che, attualmente, sono sotto la nostra osservazione, l’emergere di questi elementi è stato costante. Abbiamo rilevato come le “famiglie disabili” tendano, col tempo, ad assomigliarsi tra loro, come se vi fosse una sorta di percorso obbligato che la presenza del disabile costringe a percorrere.
A fungere da cassa di risonanza per gli squilibri interni sono anche i tempi della burocrazia nel fornire servizi di supporto (sempre troppo lunghi ed irti di difficoltà) associati, talvolta, all’insufficienza o all’inadeguatezza dei servizi stessi.
Giova solo in parte, infatti, garantire qualche ora di sollievo ad una madre di inabile mediante un servizio di assistenza domiciliare poiché non si viene a modificare la situazione più generale di scompenso nel complesso della famiglia.

“FAMIGLIA DISABILE”,  SOCIETA’ E RIABILITAZIONE
Nel corso di questo secolo, ed in particolare negli ultimi cinquant’anni, abbiamo assistito ad una esplosione nel campo dei progressi medici. Le metodiche volte a garantire, migliorare e prolungare la vita si sono moltiplicate ed affinate.
I vantaggi determinati dall’avanzamento delle conoscenze e dall’affinamento delle tecniche in campo sanitario, hanno portato con se il nascere ed il crescere di nuove realtà sociali: un sempre maggior numero di anziani più o meno autonomi, di invalidi fisici, di disabili neuro psichici.
La logica vorrebbe che, a latere, si siano evoluti altrettanto ampiamente i sistemi di inquadramento di queste categorie in ambito sociale: nulla di più falso.
Per quel che ci riguarda, dato il tipo di attività che svolgiamo, questo argomento ci preme in modo particolare: non si tratta solo e semplicemente della istituzione di strutture atte alla ricezione, protezione e (in qualche caso) rieducazione del disabile o del disautonomo ma soprattutto della loro accettazione in quanto persone. Manca ancora un’educazione alle relazioni tra “uomo della strada” e queste categorie.
Ebbene, dato che nei Paesi industrializzati si dovrà sempre più tener conto di una sempre maggior quota di persone inabili, non riteniamo sufficiente una semplice presa d’atto del problema.
Viene richiesta, infatti, una modificazione radicale della mentalità del cittadino che sarà costretto a convivere con queste persone e ne avrà la responsabilità.
L’attivazione di strutture ricettive non fa altro che nascondere dietro un muro una bomba ad orologeria la cui esplosione, inevitabile se non avviene un disinnesco, non solo distruggerà il muro ma tutto ciò che lo circonda.
Alcuni casi (non pochi) di Istituzioni apparentemente in grado di fornire assistenza, si sono rivelati sistemi per lucrare sullo smarrimento e l’impotenza dei familiari di questi nostri concittadini; in altri casi, per l’alto costo della riabilitazione, le strutture si sono banalmente occupate del semplice mantenimento in vita (nutrimento e ricovero) senza tentare un reinserimento in ambito sociale.
Risolvere il problema è alquanto difficoltoso. Manca, nella cultura dei popoli cosiddetti evoluti, la considerazione ed il rispetto della persona in quanto tale: si viene considerati per ciò che si è capaci di fare e di produrre, non per quello che ci caratterizza come uomini, depositari di sentimenti ed emozioni.
La riabilitazione ed il reinserimento sociale hanno un costo materiale elevato per la società ma il costo maggiore è in termini umani, di comunicazione, ed è totalmente a carico del disabile e della sua famiglia.
La disabilità e la disautonomia sono sicuramente “sfortune”, ma non si vede per qual motivo debbano essere anche motivi di vergogna o di isolamento.
A nostro giudizio, ed in base alla nostra esperienza, restituire dignità alla vita di questi concittadini, riconfigurare la loro presenza accanto a noi e lavorare sulla cultura di base di ogni persona riguardo il concetto stesso di disabilità che non automaticamente significa emarginazione, possono essere altrettante metodiche per il disinnesco della bomba a cui prima accennavo.
Ci preme sottolineare che, paradossalmente, coloro che fanno maggiormente le spese dell’attuale sistema di riabilitazione, sono proprio quelli che, con adeguati programmi, potrebbero conquistare una collocazione fattiva e soddisfacente in ambito sociale. I costi, la difficoltà di reperire persone preparate ad hoc e soprattutto la sfiducia (in parte giustificata) delle famiglie, rallentano se non addirittura arrestano ogni progressione, fino a livelli tali da non poter più ottenere risultati anche con la creazione di una situazione ottimale.
La nostra esperienza, ormai più che decennale con disabili mentali medio-gravi, ci rende possibile trarre qualche conclusione riguardo alle strategie possibili per ovviare alle macroscopiche carenze d’impronta assistenziale, ma soprattutto ci consente di osservare come ogni metodica volta alla regolarizzazione dei rapporti umani tra queste persone e l’ambiente nel quale vivono, funga da amplificatore per qualsiasi altro approccio riabilitativo.
La riabilitazione ed il reinserimento sociale del disabile mentale e/o fisico, passano irrinunciabilmente attraverso la creazione, intorno al soggetto, di un ambiente il più fisiologico possibile. Questa operazione, che in prima battuta è virtualmente impossibile su scala sociale, diviene realizzabile se esercitata in primo luogo a livello familiare.
Favorire una ricomposizione di rapporti interpersonali tra i membri componenti, rende possibile un reingresso del portatore di Handicap nell’ambito di una situazione socio-ambientale di base: da questo gradino è possibile, per il disabile, partire per una azione più ampia e strutturata (scuola, lavoro, rapporti col quartiere, autonomia economica e quant’altro), che fornisca risultati pratici apprezzabili.
Nel precedente paragrafo abbiamo, in estrema sintesi, descritto i guasti e le paure che caratterizzano la “famiglia disabile”. Non abbiamo volutamente scendere nel particolare poiché ogni situazione è a se stante ma crediamo di aver compiuto un’astrazione efficace evidenziando quelli che sono i loro caratteri comuni. Questa apparente semplificazione del problema corrisponde in realtà ad un’operazione di sintesi delle esigenze che, a parte ogni particolarismo, vengono espresse da ogni “Famiglia disabile” e sulle quali abbiamo lavorato in questi anni, ottenendo risultati apprezzabili che in questa sede esporremo.

PROPOSTE D’INTERVENTO
Le “famiglie disabili” sono, come già detto, molto fragili. Anni di tentativi infruttuosi e, spesso, pellegrinaggi da un Istituto all’altro, ne rendono sfiduciati e diffidenti i membri. Ad ogni nuovo tentativo si vedono costretti ad un faticoso adattamento che influisce negativamente anche nei rapporti con la struttura dalla quale cercano soluzioni. Proprio la stanchezza è il movente di certi atteggiamenti, perfettamente giustificabili, volti alla pretesa di immediate e rapide risposte (raramente ottenibili in breve tempo).
Nella nostra esperienza è stato vitale porsi, di fronte agli interessati, oltre che in modo professionalmente corretto, anche in una posizione di estrema chiarezza ed apertura. Si rivela necessario essere, nei colloqui preliminari, molto disponibili all’ascolto delle problematiche esposte da ogni singola famiglia così da arrivare, anamnesticamente, ad una ricostruzione degli intrecci affettivi che la caratterizzano e ad una individuazione di coloro che, nel nucleo, risultano più fortemente colpiti da disagi.
La diffidenza dei familiari e la reticenza che spesso mostrano sono ostacoli che si superano soltanto se si evita di incalzare con domande stereotipe: l’esposizione dei problemi dovrebbe essere spontanea e nei tempi che ogni membro richiede secondo la sua personalità.
Il grado di apertura che i congiunti mostrano e la rapidità con cui entrano in sintonia col Centro, sono un buon metodo per stabilire il grado di fiducia raggiunto.
Riteniamo fondamentale questa fase preliminare, anche se richiede un tempo molto lungo, poiché se l’intervento sul disabile deve essere mirato alla sua reintegrazione nella famiglia come persona, è inevitabile cercare di rendere la famiglia stessa più serena nei suoi confronti,  e questa operazione non può escludere un sostegno a chi, più di altri, altera suo malgrado gli equilibri interni.
L’allontanamento del disabile dal nucleo familiare è vissuto, talvolta, come una lacerazione, specie per ciò che attiene alla figura materna. L’ipertrofia del sentimento materno che si genera in presenza di una disabilità non nasce soltanto da un naturale istinto ma, soprattutto, da una sorta di senso di colpa. Il sacrificio di se, in queste situazioni, è un metodo che la madre pone in atto per alleviare i disagi che questo sentimento le provoca. Risulta quindi evidente che l’affidamento ad un Centro del proprio figlio è cosa, al contempo, desiderata e rifiutata. Nella maggioranza dei casi le difficoltà maggiori si incontrano non tanto nella riabilitazione del disabile, quanto nei rapporti con sua madre.
Laddove la genitrice pone resistenze, comunque, i membri restanti giovano di un sollievo evidente che, contrariamente a quanto si può pensare, non deriva dallo scarso affetto nutrito nei confronti del congiunto disabile ma solo dalla possibilità, restituita loro, di recuperare tempo libero, attività lavorative, rapporti sociali e quanto necessario per la conduzione di una vita il più possibile normale.
Il Centro di riabilitazione, per ottenere il suo scopo, deve rappresentare, per il disabile ed i suoi congiunti, un naturale prolungamento della famiglia stessa. Non si vuole, con questo, snaturare il concetto di riabilitazione: il Centro diviene semplicemente il luogo dove si svolgono attività che in famiglia non possono essere attuate e rappresenta un punto di riferimento per tutti coloro che, spontaneamente, vi vogliono trovare supporto.
Per ottenere questo non facile risultato è necessario che si avverino alcune condizioni:
1) Rendere fluidi i rapporti con le Istituzioni mediante un costante supporto da parte di un servizio di Assistenza Sociale interno alla struttura. Non si tratta di sostituirsi ai congiunti nel richiedere servizi agli enti preposti ma anche e soprattutto di fornire indicazioni che siano utili ad abbreviare le procedure di disbrigo delle pratiche (pensioni di invalidità, indennità di accompagno, servizi di trasporto, delibere nominali o quant’altro).
2) Disponibilità al colloquio facendo salvi i tempi ed i modi che le condizioni del disabile impongono nel corso del processo riabilitativo. Una eccessiva confidenza e familiarità sono sicuramente dannose ma altrettanto dannoso è un rapporto troppo burocratizzato che escluda calore e comprensione. I parenti non devono avere la sensazione che l’affidamento sia solo una delega in bianco a freddi tecnici il cui linguaggio criptico e misterioso lasci sempre il dubbio che, nel processo riabilitativo, vengano meno le componenti umane di partecipazione e di affetto. Non a caso parliamo di calore, comprensione ed affetto. Queste componenti, alterate nella quantità e nella qualità in ambito familiare, per i processi che più sopra abbiamo descritto, vengono restituite ai membri del nucleo disabile mediante l’azione del Centro che si pone, quindi, come strumento di riequilibrio e come termine di paragone.
3) Responsabilizzazione dei congiunti che vengono chiamati a partecipare attivamente ai programmi stabiliti per la riabilitazione. Il concetto di cooperazione diviene fondamentale per rinsaldare il significato “familiare” che il Centro dovrà assumere per il Disabile, almeno nei primi tempi dell’inserimento. Qualsiasi essere umano, posto di fronte ad una situazione nuova nella quale gli viene richiesto uno sforzo adattativo, ricerca punti di riferimento consolidati in attesa di crearsene di nuovi. Nel caso di un soggetto affetto da ritardo mentale questo discorso è tanto più valido in considerazione della struttura psicologica infantile che in genere lo caratterizza. La presenza di uno o più parenti in specifiche occasioni (compleanni, Feste religiose o simili) e la loro partecipazione attiva ad attività organizzate nell’ambito del Centro può costituire una metodica efficace per aprire una porta fra il compartimento affettivo e quello di lavoro.

4) Informativa costante e chiara sullo stato di avanzamento del programma. La resa di questa strategia sul piano pratico può essere estremamente alta. I genitori, spesso delusi da precedenti esperienze e scettici riguardo alle possibilità del congiunto disabile, non sono rassicurati tanto da risultati eclatanti (difficilmente ottenibili in tempi brevi) quanto dalla consapevolezza della qualità delle attività e di tutto ciò che si programma per ottenere risposte sul piano riabilitativo. Non è di secondaria importanza, quindi, che il Centro preveda momenti specifici di colloquio nel rispetto dei tempi che, all’Equipe, sono richiesti per le attività più propriamente tecniche e che, nel caso vi siano resistenze da parte della famiglia a chiedere spontaneamente informazioni, si faccia parte attiva in tal senso. Il concetto di Cooperazione (e non di delega) è estremamente importante per soddisfare i requisiti di un progetto che tenda a rendere più fisiologici possibile i rapporti tra il disabile e la sua famiglia.
5) Supporto psicologico ai membri che ne facciano richiesta nei casi in cui la convivenza con la disabilità sia alla base di scompensi psicologici più o meno marcati. L’attività dello psicologo nei confronti della famiglia non dovrebbe fermarsi alla raccolta di un’anamnesi accurata ma anche al sostegno attivo di coloro che risultano più bisognosi di riequilibrare la propria sfera affettiva. Quest’opera è volta a rendere più solida la base sulla quale, nei casi più favorevoli, il disabile potrà appoggiarsi per costruire una più ampia strutturazione del suo stesso reinserimento sociale.
6) Rendere fattiva e reale la prospettiva di assistere il disabile a vita, qualora richiesto dai familiari, e di provvedere ad una sua duratura sistemazione in casa famiglia. Il soddisfacimento di questo elemento di rassicurazione abolisce la principale preoccupazione dei congiunti che, in questo modo, avranno la libertà di gestire senza restrizioni la propria vita ed il proprio futuro.