Quando una linea guida sullo svezzamento non funziona (o è dannosa) non sarebbe meglio cambiarla?

 

vlcsnap-2014-11-05-09h50m47s101Stefano Tasca

10/9/2016

A luglio u.s. è comparsa, sul sito della Società Italiana di Pediatria, la recensione ad un articolo a firma Perkin MR . Si tratta di uno studio randomizzato riguardante l’effetto preventivo sulle allergie alimentari in età infantile mediante introduzione precoce di alimenti potenzialmente sensibilizzanti ( http://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMoa1514210 ). Tale recensione, riportando i dati del lavoro, è stata anche commentata: nonostante chiari risultati positivi in merito all’effetto di piccole dosi di cibi a potenziale allergizzante somministrati a partire dai 3 mesi come strategia di evitamento di risvolti patologici, le parole usate ed i concetti sono stati ancora di (a nostro giudizio ed in base alla nostra esperienza) eccessiva prudenza in merito a tale presidio. Verrebbe da dire: “usque tandem?”. Probabilmente, per non voler cambiare, anche di fronte all’evidenza, si continueranno a creare presupposti per patologie immunitarie alimentari….ma: fino a quando?

E’ particolarmente interessante leggere quella recensione alla quale abbiamo risposto con un commento che riporteremo in calce a  questo articolo.

“”Gli autori di questo trial, denominato Enquiring about Tolerance (EAT), hanno valutato se l’introduzione a 3 mesi di età di più alimenti particolarmente allergenici (arachidi, uovo di gallina cotto, latte di mucca, sesamo, pesce bianco, e frumento) nella dieta dei lattanti allattati al seno potesse costituire un fattore di protezione contro lo sviluppo di allergie alimentari. Metodi: Sono stati reclutati, dalla popolazione generale, 1303 lattanti di 3 mesi di età esclusivamente allattati al seno, assegnati in modo casuale alla rapida introduzione di sei alimenti allergenici (arachidi, uovo cotto, latte di mucca, sesamo, pesce bianco, e grano: “gruppo di introduzione precoce” – GIP) o a un’esclusiva alimentazione al seno per circa 6 mesi (“gruppo di introduzione standard” – GIS). L’esito primario era un’allergia alimentare a uno o più dei sei alimenti tra 1 e 3 anni di età. Risultati: L’analisi Intention-to-Treat ha evidenziato lo sviluppo di allergia alimentare nel 7,1% dei soggetti presenti nel GIS (42 su 595 partecipanti) a uno o più dei sei alimenti introdotti, e nel 5,6% di quelli nel GIP (32 di 567) (P = 0,32). Nell’analisi Per-Protocol, la prevalenza di qualsiasi allergia alimentare è stata significativamente inferiore nel GIP rispetto al GIS (2,4% vs 7,3%, p = 0,01), così come la prevalenza di allergia alle arachidi (0% vs 2,5%, p = 0,003) e allergia all’uovo (1,4% vs 5,5%, p = 0,009); non ci sono state differenze significative rispetto al latte, sesamo, pesce, o grano. Il consumo di 2 g per ogni settimana di arachidi o di proteine del bianco d’uovo è stato associato a una prevalenza significativamente minore di queste allergie rispetto a quanti ne consumavano minori quantità. L’introduzione precoce di tutti e sei gli alimenti non è stata facilmente raggiunta, ma si è mostrata sicura. Conclusioni, discussione e commenti: Secondo l’analisi Intention-to-Treat, l’introduzione precoce di alimenti allergenici nello studio EAT non ha prevenuto lo sviluppo di allergia rispetto a quanto si evidenziava nei pazienti presenti nel GIS. Nell’analisi Per-Protocol, invece, c’è stato un significativo minor rischio relativo  (0.33)  di allergia alimentare complessiva nel GIP (95% CI, 0.13 to 0.83; P = 0.01), e in questo gruppo la prevalenza di allergia alimentare era del 67% più bassa rispetto al GIS. Inoltre, sempre nel GIP e con l’analisi Per-Protocol, sono stati osservati rischi di allergia alle arachidi e all’uovo significativamente più bassi rispetto al GIS (P = 0,003 e P = 0,009, rispettivamente). L’efficacia della scelta alimentare era legata sia alla durata del consumo dell’alimento specifico sia alla quantità di cibo consumato tra 3 e 6 mesi di età. Lo studio ha evidenziato che l’introduzione precoce di alimenti allergenici è stata una procedura sicura, non si è avuto nessun caso di anafilassi e conseguenze negative sulla durata dell’allattamento al seno o sulla crescita. Tuttavia, poiché non è stata trovata una minor prevalenza di allergia complessiva e allergia ad arachidi ed uovo con l’analisi Intention To Treat, non si possono trarre conclusioni. Il consumo di uovo cotto ha favorito lo sviluppo di tassi più bassi (di circa il 49%) di skin-prick test positivi al bianco d’uovo crudo o all’estratto d’uovo. I dati riportati nello studio suggeriscono che l’introduzione di uovo cotto potrebbe essere una strategia più sicura, utile per la prevenzione. Così come già descritto in letteratura, le allergie alimentari sono state più frequenti tra i lattanti che presentavano eczema rispetto a quelli senza. L’adesione al protocollo di studio è stata significativamente più bassa tra i partecipanti al GIP che erano di colore o presentavano eczema rispetto a quelli presenti nel GIS. L’aderenza è stata inferiore nei casi in cui i genitori del GIP percepivano la comparsa di sintomi nei loro piccoli. Una delle debolezze metodologiche di tale studio è stato infatti il basso tasso di aderenza al protocollo di studio da parte dei soggetti presenti nel GIP, il 42.8% (208 su 486 arruolati), rispetto a quelli presenti nel GIS, ove il 92,9% (524 su 564 soggetti arruolati) ha terminato lo studio. In conclusione, questi dati rendono  la strategia dell’introduzione precoce nella dieta di cibi allergenici ancora non sufficientemente provata e di dubbia applicazione pratica, sebbene essa non sembri determini conseguenze negative sui tassi di allattamento al seno e sulla salute. Nuovi studi sono necessari perché lo svezzamento precoce con alimenti potenzialmente allergizzanti entri a far parte nella consuetudine clinica, ancora adesso l’allattamento al seno esclusivo per 6 mesi resta il consiglio più condivisibile.”"

Abbiamo sottolineato il commento dell’autore della recensione perché è quello che ha sollecitato in noi, dopo lunga riflessione, qualche perplessità. La nostra risposta (mia personale come pediatra e del Dr. Alessandro Tasca in quanto biologo nutrizionista) è stata la seguente:

“”L’articolo da lei recensito è stato ampiamente commentato già sul NEJM ed ha addirittura formato oggetto, sulla stessa rivista, di un editoriale a firma Gary WK e Wong MD. Per ciò che mi attiene occorre che io faccia una piccola premessa dicendo che da tempo immemore mi avvalgo dell’introduzione di cibi potenzialmente allergizzanti nella dieta dei bambini a partire dal 4° mese (4°: formaggio parmigiano 36 mesi; 5°: glutine; 6°: uovo (tuorlo) ed eventualmente latte vaccino opportunamente modificato e reintegrato dopo diluizione; 7°: pesce). Non uso burro di arachidi ne sesamo dato che non fanno parte integrante ed obbligatoria della nostra cultura gastronomica. Posso testimoniare a mia volta che questa procedura non intacca minimamente i tassi di allattamento al seno, non determina problemi di accettazione ma soprattutto si è ampiamente dimostrata efficace nella prevenzione delle allergie alimentari, anche (e mi sembra giusto sottolinearlo) nei soggetti con atopie od eczemi o familiarità per un qualche tipo di diatesi allergica: nel mio follow up, che arriva in qualche caso ad oltre 20 anni, non si è verificato alcun caso di sensibilizzazione ad alcun alimento. L’altro aspetto però che tengo a sottolineare è quello del bilancio alimentare complessivo che ha consentito di evitare, mediante questa strategia, sia i problemi relativi alle difficoltà di divezzo (resistenza all’introduzione degli alimenti) sia quelli di sovrappeso/obesità fino all’adolescenza ed oltre, per non parlare dell’ottimo stato del ferro. Ci troviamo pienamente d’accordo, quindi, col commento che ha fatto il Dr. Bobrow RS (Stony Brook University, NY) il quale, in sintesi, dice che l’introduzione precoce di alimenti allergizzanti è stata comune e diffusa fino alla fine degli anni 80, crescendo intere generazioni in assenza di macroscopiche incidenze di allergie alimentari, laddove, dal 1991 in poi, sulla base di indicazioni stilate su sospetti più che su certezze (scant evidence), il tasso di allergici a cibi si è moltiplicato esponenzialmente. La risposta dello stesso Perkin, autore dell’articolo da lei recensito, è interessante e vale la pena riportarla integralmente poiché la sposiamo in pieno: ”Sono d’accordo con Bobrow sul fatto che ci si è allontanati dall’introduzione precoce dei solidi sulla base di evidenze scarse assunte sulla base di timori per le allergie. Nondimeno, una volta che questo concetto si è radicato nelle linee guida internazionali, per eroderlo e modificarlo occorrono studi randomizzati. Credo però che il corpus delle evidenze (nel loro complesso) si stia muovendo verso l’introduzione precoce degli alimenti potenzialmente allergizzanti”. Un’ultima notazione andrebbe fatta riguardo alla differenza tra risultati ITT e PP. L’abbandono del protocollo in alta percentuale non necessariamente, in questo caso, riflette problemi medici o patologie: semplicemente (e si può capire leggendo gli schemi proposti dagli sperimentatori) è dovuto a difficile compliance, paura dei genitori che i bambini potessero soffocarsi con cibi a tessitura complessa, rinuncia dei genitori di fronte a bambini che semplicemente “non gradivano” il sapore, timore dei genitori di fronte a manifestazioni casuali interpretate come insorgenza di patologia allergica. Questo rafforza l’analisi PP nella quale, chi ha seguito fino in fondo le indicazioni, ne ha tratto certamente un vantaggio in termini di prevenzione allergica e di sviluppo della tolleranza immunitaria. Infine: il chiaro risultato dell’analisi per protocol, favorevole, è comunque ben bilanciato dall’analisi intention to treat che, lungi dall’essere negativa, è risultata quanto meno percentualmente pari. Non ci pare vi siano rischi di sorta visto che ciò che importa è “non nocere” anche in termini di mantenimento dell’allattamento al seno e della salute complessiva. Diciamo dunque che se non fa bene certamente non fa male. Speriamo che il suono insistente di queste ormai numerose campane (è dal 2004 che si sono moltiplicate pubblicazioni su pubblicazioni: forse varrebbe la pena di non reiterare troppo, su questo tema, la frase “occorrono ulteriori studi”) possa alla fine destare qualcuno che decida linee guida più adeguate. “”

Bibliografia:
N Engl J Med 2016;375:e16 (Aug 25 2016)
N Engl J Med 2016;374:e18 (May 5 2016)

 

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