Mastosuttori (tiralatte), massaggi mammari, spremitura del seno, DAS: siamo abbastanza attenti ai risvolti psicologici?

 

tiralatte-come-funziona5/11/2015

In questi tempi di entusiasmo nel promuovere e facilitare l’allattamento al seno, gli operatori sanitari e le organizzazioni pro-breastfeeding (di volontariato o meno), sulla scorta di evidenze scientifiche che dimostrano come alcune metodiche possano favorire sia la produzione che la discesa del latte, si avvalgono della mastosuzione, del massaggio mammario e della spremitura come coadiutori della galattopoiesi e della lattogenesi, oltre che di dispositivi per l’erogazione di latte tirato o artificiale mentre il piccolo è attaccato al seno (DAS). I risultati sono favorevoli, senz’altro, ed in alcune (se non quasi tutte) le situazioni si ottengono buone risposte sia sul piano della risoluzione di eventuali ingorghi sia sull’incremento della produzione di latte. Non intendo discutere sull’efficacia delle metodiche suddette: hanno una loro piena giustificazione. Quel che mi chiedo, dopo qualche anno di esperienza (ormai una trentina), è se le applichiamo con le dovute cautele dato che stiamo agendo su un organo, la ghiandola mammaria, dove risiede una consistente parte dell’identificazione di genere e dove, affettivamente parlando, la donna colloca la sua femminilità.

Il seno non è una semplice ghiandola a secrezione esocrina: è lo scrigno in cui la donna tiene custodite le proprie prerogative sia di seduzione che di significato. Potremmo dire che vi si identifica. La conseguenza è che il suo valore simbolico travalica di gran lunga quello materiale, di produzione del latte. La funzione nutritiva infatti non è solo meccanica e ormono-dipendente: a sua volta rinforza i simbolismi che circondano la maternità (accoglienza, conforto, morbidezza, calore, rassicurazione, benessere) fornendo alla donna la stessa sensazione di unione e comunicazione col proprio bambino che, durante la gravidanza, era assicurata dal cordone ombelicale: una sorta di “sacco vitellino” esterno. Certamente tutto ciò sembrerà poetico e mieloso ma vale la pena di tenerlo in considerazione. A colloquio con molte madri di miei piccoli assistiti, dato che ho una inclinazione verso la psicologia e quindi questi aspetti fanno parte del mio quotidiano, ho potuto constatare che si tratta di fatti e non solo di illazioni. Una gran quantità di donne che hanno avuto qualche difficoltà iniziale nei tempi della montata lattea e che sono state sottoposte a procedure meccaniche sul seno hanno riferito di aver provato una sensazione di disagio ma, attenzione, non prevalente a livello fisico, seppure il dolore sia stato una componente presente, bensì psicologico. Queste donne, in notevole percentuale, sono state le stesse che hanno presentato i maggiori segni di PPD (depressione post partum) pur a fronte di buoni risultati sul piano funzionale con allattamenti pieni ed esclusivi. Certamente non sto dicendo che è stata la manipolazione del seno la causa della loro velata PPD: quel che è innegabile è che questo elemento, a loro detta, ha costituito un notevole contributo. La loro sensazione è stata quella di sentirsi “oggetti” e non soggetti dell’allattamento. E’ come se il loro seno fosse stato deprivato delle prerogative affettive e ridotto a semplice organo, un semplice strumento, una semplice appendice. In qualche caso la manipolazione della mammella è stata considerata una violazione dell’intimità. In un caso specifico il massaggio (seguito dalla mastosuzione) è stato frainteso al punto da considerare “maniaco” chi lo poneva in atto (preponderanza della componente seduttiva su quella di identificazione di genere).

La mia riflessione su questo tema è stata profonda. Massaggio, mastosuzione, spremitura innegabilmente portano a dei risultati in termini di lattogenesi e soprattutto galattopoiesi, ma sul versante affettivo siamo certi che non provochino una distorsione di quanto più intimo e simbolico il seno rappresenta? Mi sono chiesto più volte come agire e consigliare di agire in modo contemporaneamente efficace e prudente. In primo luogo, stante la necessità di dover applicare tali procedure in determinati e selezionati casi ad evitare la mastite o l’ingorgo o la congestione, tutti eventi penalizzanti dal punto di vista dei risultati, ogni atto dovrebbe essere preceduto da una richiesta di permesso e non posto in essere, come spesso accade in molti atti medici (palpazione dell’addome, del collo, spremitura di un ascesso od altro), direttamente e senza spiegarne il significato. Una delle sensazioni riferite è stata quella di non essere considerate persone ma strumenti inanimati: la “presa” sulla mammella è stata spontanea, al letto della puerpera, non preceduta da alcun preambolo se non un: “vediamo se c’è colostro”. In secondo luogo sarebbe prudente agire in maniera meno “aggressiva”: a livello simbolico occorre manifestare un segno di rispetto verso la mammella e la persona. In terzo luogo, quando si attua la mastosuzione, sarebbe opportuno che questa sia contemporanea al massaggio: l’efficacia è maggiore quando avviene in sincrono con la suzione ed i tempi si accorciano. Inoltre la mastosuzione andrebbe attuata non in modo continuo ma alternato (3-4 minuti per seno in più riprese) dato che il latte non ha una emissione continua ma a poussees. Sarebbe inoltre utile – e questo è un elemento sul quale insistono le signore che hanno provato disagi con tecniche più “freddamente” applicate – che durante la procedura si parli, si interloquisca, si chiacchieri, si chieda continuamente se si sta dando fastidio, se la donna ha suggerimenti sul come potrebbe sentirsi più a proprio agio: in questo modo la donna non perde la sua soggettività ed il controllo su quanto si sta facendo.

Un’ultima considerazione mi è venuta spontanea negli ultimi mesi a seguito della constatazione di eventi piuttosto significativi: molte donne, sottoposte a reiterate e prolungate (settimane) procedure di manipolazione, mastosuzione e quant’altro, non hanno comunque ottenuto un buon esito. La “violazione”, che pure sarebbe stata tollerabile in caso di successo, è stata fine a se stessa quindi la donna si è sentita doppiamente defraudata del suo ruolo femminile: da un lato lo “svilimento” del suo seno a puro oggetto, dall’altro la negazione del coronamento dell’evento parto (do la vita/mantengo la vita). La domanda mi è sorta spontanea: fino a che punto è corretto insistere con mezzi meccanici quando l’esito rimane poco significativo e quando il rischio di alterare il rapporto della donna con se stessa (sia in quanto donna, sia in quanto madre) e col proprio piccolo diviene consistente? E’ possibile stabilire dei tempi ragionevoli per salvare la componente più importante della maternità che è la consapevolezza di esserci e di essere efficiente, amorevole, educativa, protettiva pur in assenza di latte materno?

Ringrazio chiunque sia arrivato a leggere sin qui. Rimango in attesa di eventuali commenti e opinioni.

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